Caso Regeni, la Repubblica accusa addirittura Trump di 'silenzio', nessun richiamo invece alla docente di Cambridge che mandò Giulio in Egitto Il pezzo disinformante di Riccardo Luna
Testata: La Repubblica Data: 16 ottobre 2019 Pagina: 16 Autore: Riccardo Luna Titolo: «Quelle domande sull’omicidio a cui gli Stati Uniti non rispondono»
Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 16/10/2019, a pag.16, con il titolo "Quelle domande sull’omicidio a cui gli Stati Uniti non rispondono", il commento di Riccardo Luna.
IC ha pubblicato molte pagine (http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=6&sez=120&id=75044) sulla prima e assoluta responsabile dell'invio al Cairo del ricercatore italiano Giulio Regeni, la sua docente musulmanaMaha Abdel Rahman (della Fratellanza Musulmana) all'università di Cambridge. I media invece quasi sempre indicano nell'Egitto il solo responsabile della sua morte. Ritenere, come hanno dichiarato alcuni funzionari egiziani, che Regeni fosse una "spia" non si allontanava molto dalla verità, anche se di questo il giovane ricercatore e giornalista non era consapevole.
La Repubblica oggi, con un richiamo in prima pagina, addirittura accusa Donald Trump di rimanere in silenzio con il titolo "Regeni, le risposte che pretendiamo da Trump". Che cosa c'entri il Presidente americano non è dato sapere, ma siamo ormai abituati a vederlo accusato di qualsiasi nefandezza.
Ecco l'articolo:
Maha Abdel Rahman
Riccardo Luna
Il 15 agosto 2017 il magazine del New York Times è uscito con una lunga storia di copertina intitolata: "Perché uno studente italiano è stato torturato e ucciso in Egitto". Si narravano, con molti dettagli, «le strane circostanze» della scomparsa di Giulio Regeni al Cairo, trovato morto il 3 febbraio 2016 alcuni giorni dopo essere stato rapito. Da chi e perché? Secondo l’autore dell’inchiesta, il corrispondente dal Cairo Declan Walsh, il governo americano, allora guidato da Barack Obama, aveva trovato le risposte e le aveva trasmesse al governo italiano, allora guidato da Matteo Renzi. Tre giorni dopo la pubblicazione di quell’inchiesta, il 18 agosto 2017, con il collega Marco Pratellesi, presentammo al Dipartimento di Stato una richiesta di accesso a quegli atti. Tecnicamente si chiama FOIA, Freedom of Information Act, un istituto che da oltre mezzo secolo «assicura il funzionamento della democrazia», secondo quanto si afferma sul sito ufficiale. Di fatto, è il diritto dei cittadini di sapere, di avere accesso ai documenti del governo, purché questo non leda la sicurezza nazionale e la privacy dei singoli. Sono passati più di due anni. E la risposta non è ancora arrivata. Gli Stati Uniti non ci stanno dicendo quello che sanno sulla morte di Giulio Regeni. Perché? Eppure la richiesta FOIA è stata regolarmente accettata. Le è stato assegnato un numero (control case number) e ci è stato detto che si trattava di materiale "unclassified", non coperto da segreto. Di solito per avere una risposta ad un FOIA negli Stati Uniti ci vogliono trenta giorni: lo dicono loro stessi sul sito ufficiale. Ma non è un termine perentorio, dipende dalla complessità della richiesta e dal numero totale di richieste da gestire. Il 3 novembre 2017, dopo oltre due mesi di attesa, abbiamo così scritto di nuovo all’ufficio del FOIA per avere una data. Ci hanno risposto diverse cose importanti: 1) la richiesta era stata assegnata ad un team che se ne stava occupando; 2) in quel momento c’era una coda di circa 12 mila e 400 richieste da smaltire e per questo ci voleva più del solito; 3) per completare il processo e darci i materiali, «poteva essere necessario attendere fino a settembre 2019». Due anni e un mese. Due anni e un mese per trasmetterci le informazioni che gli Stati Uniti hanno sulla morte di Regeni. Eppure, si legge sempre sul sito ufficiale, «se c’è una urgenza di informare l’opinione pubblica » la risposta deve poter arrivare prima. Non era questo il caso per gli Stati Uniti, evidentemente. Il 30 settembre 2019 però è arrivato: allora abbiamo di nuovo scritto agli uffici del FOIA e il 7 ottobre è giunta la risposta definitiva: «Your request remain in process». Ci stiamo ancora lavorando, senza date e impegni certi. Come certi cartelli in autostrada con i lavori in corso che non finiscono mai. Perché il governo americano si ostina a tenere coperte le carte sulla morte di Giulio Regeni pur non considerandole "classified"? Per provare a capirlo occorre tornare a leggere quell’articolo del New York Times . C’è un passaggio in cui si afferma che «nelle settimane successive alla morte di Regeni, gli Stati Uniti ricevettero dall’Egitto informazioni di intelligence esplosive: la prova che funzionari di sicurezza egiziani avevano rapito, torturato e ucciso Regeni». In particolare un funzionario dell’amministrazione Obama disse: «Avevamo prove incontrovertibili della responsabilità ufficiale egiziana. Non c’era dubbio». Prove incontrovertibili, quindi. Quali? È quello che il FOIA del 18 agosto 2017 vuole scoprire, visto che «su raccomandazione del Dipartimento di Stato e della Casa Bianca, gli Stati Uniti passarono questa loro conclusione al governo Renzi». Ma per evitare di "bruciare" la fonte, gli americani non condivisero con il nostro governo i dati originali, né rivelarono quale agenzia di sicurezza pensavano fosse responsabile della morte di Regeni. «Non era chiaro chi aveva dato l’ordine di rapirlo e, presumibilmente, ucciderlo», disse al New York Times un altro ex funzionario. «Quello che gli americani sapevano per certo, e lo dissero agli italiani, fu che la leadership egiziana era completamente a conoscenza delle circostanze della morte di Regeni». «Non avevamo alcun dubbio che questo fosse noto ai livelli più alti», disse l’altro funzionario. «Non so se avevano responsabilità. Ma sapevano. Sapevano ». Sapevano quello che la famiglia Regeni attende di scoprire da quel 3 febbraio 2016. Quando uscì l’articolo del New York Times , Paolo Gentiloni da nove mesi aveva preso il posto di Matteo Renzi quale presidente del Consiglio. Fonti di palazzo Chigi fecero trapelare una versione per cui «non furono mai trasmessi elementi di fatto né tantomeno prove esplosive». Matteo Renzi non disse nulla; eppure quando era premier aveva tuonato. «Ci fermeremo solo quando avremo trovato una verità vera, non di comodo» (evidente riferimento ai numerosi tentativi di depistaggio degli egiziani). Dalla maggioranza di governo partì un fuoco di fila contro la versione del New York Times , definita nel migliore dei casi «una bufala», in altri «un tentativo di mettere in pericolo le relazioni fra Italia ed Egitto ». Tutto può essere. Il modo migliore per dimostrarlo sarebbe leggerle, quelle carte. Per questo ieri abbiamo presentato un FOIA identico al governo italiano. La verità conta.
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