Kurdi traditi: le responsabilità degli Usa e dell'Italia Commenti di Fausto Biloslavo, Angelo Panebianco
Testata:Il Giornale - Corriere della Sera Autore: Fausto Biloslavo - Angelo Panebianco Titolo: «Così il governo di Conte ha rifiutato aiuto ai curdi - Il ruolo smarrito degli Usa»
Riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 14/10/2019, a pag.1-11, con il titolo "Così il governo di Conte ha rifiutato aiuto ai curdi", il commento di Fausto Biloslavo; dal CORRIERE della SERA, a pag. 1-28, con il titolo "Il ruolo smarrito degli Usa", l'editoriale di Angelo Panebianco.
Ecco gli articoli:
IL GIORNALE - Fausto Biloslavo: "Così il governo di Conte ha rifiutato aiuto ai curdi"
Fausto Biloslavo
Luigi Di Maio con Giuseppe Conte
All'inizio dell'anno gli americani avevano avanzato al governo italiano la richiesta di una forza di interposizione davanti al confine turco da dispiegare in territorio siriano. L'obiettivo era di rassicurare i turchi garantendo il famoso corridoio di sicurezza e proteggere i curdi. Da Roma non hanno preso in considerazione la proposta nonostante nel vicino Kurdistan iracheno abbiamo da anni oltre mille uomini e la copertura aerea necessaria garantita anche dai caccia italiani in Kuwait. La terribile ipocrisia, sulla pelle dei curdi, è che adesso il ministro degli Esteri, Luigi De Maio, allora vicepremier, agita la rappresaglia tardiva del blocco delle vendite di armi e pure il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, si scaglia a parole contro la Turchia. Non ci voleva molto per salvare i curdi: bastava abolire il caveat imposto fin dai tempi del governo Renzi e mantenuto da Gentiloni sull'assoluto divieto alle nostre forze di operare in Siria. Nonostante facciamo parte della coalizione anti terrorismo in Irak, con uno dei vicecomandanti italiano. «Non abbiamo avuto il coraggio politico, militare, umanitario di dispiegare le nostre forze sul territorio siriano. Se l'avessimo fatto i turchi non avrebbero mai attaccato» spiega una fonte militare del Giornale. Non solo: gli americani sono tornati alla carica nel periodo fra il vecchio e nuovo governo con la richiesta di una missione ridotta di addestramento della guardie curde delle prigioni dove sono detenuti i terroristi dell'Isis. Da Roma hanno preso tempo e la situazione è precipitata. Gli Usa avevano lanciato la proposta della missione cuscinetto all'inizio dell'anno sapendo bene che il sultano Erdogan voleva lanciare l'offensiva contro i curdi. «Eravamo in una fase iniziale, neppure di pianificazione vera e propria, ma è arrivato subito lo stop del vertice della Difesa» spiega la fonte del Giornale. L'allora ministro, Elisabetta Trenta, si preoccupava solo di ritirare le truppe, com'è stato fatto con i 500 uomini che proteggevano la diga di Mosul, per una missione in Niger, mai decollata veramente. In Irak abbiamo, secondo i dati del sito della Difesa, «1.100 militari, 305 mezzi terrestri e 12 mezzi aerei» dell'operazione Prima Parthica. Dal 2014 addestriamo i combattenti del Kurdistan iracheno, che hanno fronteggiato l'Isis su un fronte di mille chilometri. «Gli americani puntavano su di noi - spiega la fonte militare - perché siamo ben visti dai curdi, ma abbiamo buoni rapporti anche con la Turchia e la Russia. Per non parlare delle relazioni con il mondo sciita non solo grazie alla missione in Libano. Neanche Damasco avrebbe detto di no». A Erbil sono operativi 4 elicotteri della task force Griffon e dal Kuwait utilizziamo droni Predator e caccia Eurofighter, in missioni di sorveglianza e intelligence perché non possono bombardare. Un caveat pacifista difeso a spada tratta dall'allora ministro della Difesa, Roberta Pinotti, che secondo la stessa logica ordinava ai nostri corpi speciali di restare a 7 chilometri dalla prima linea a Mosul, la «capitale» del Califfato. Dopo gli americani siamo il Paese con il più alto numero di soldati in Medio Oriente, ma per mancanza di attributi e lungimiranza politica li utilizziamo in seconda linea alla stregua di comparse. Poi quando massacrano i curdi gridiamo «al lupo», proponendo misure tardive se non inutili piangendo lacrime di coccodrillo. L'operazione cuscinetto, che avrebbe salvato il popolo senza stato, era a conti fatti pure nel nostro interesse. Il governo comincia a lanciare l'allarme profughi, che Erdogan ha minacciato di spedirci in massa. «E non dimentichiamo che in Italia abbiamo obiettivi turchi prioritari», spiega la fonte militare del Giornale. I curdi, non si faranno spazzare via senza colpo ferire e potrebbero colpire il nemico con attacchi eclatanti anche in Europa e da noi.
CORRIERE della SERA - Angelo Panebianco: "Il ruolo smarrito degli Usa"
Angelo Panebianco
Ricordate l’imperialismo americano, la «sporca guerra del Vietnam», yankee go home, e il resto del repertorio? Adesso gli americani stanno andando sul serio a casa. E, come si vede in Medio Oriente, è un patatrac. Persino coloro che sono invecchiati inveendo contro gli arroganti «gendarmi del mondo», si rendono conto che se il posto di gendarme è vacante sono dolori, qualunque teppista può fare i danni che vuole. Donald Trump, con una telefonata, ha dato il via libera a Erdogan, alla sua agognata «soluzione finale» nei confronti dei curdi siriani, ossia di quelli che erano stati gli alleati principali degli Stati Uniti nella lotta contro lo Stato Islamico. Li ha ceduti (gratis) a uno che nemmeno lo ringrazierà. Trump ha subito dopo twittato un mezzo pentimento. Ma Erdogan non si è fatto impressionare (Trump, nel frattempo, è anche riuscito a dire: ma, insomma, dov’erano questi curdi mentre noi sbarcavamo in Normandia?): l’operazione militare nel Kurdistan siriano è in corso e non si fermerà fin quando gli obiettivi del dittatore turco non saranno raggiunti. Non c’è bisogno di mescolare, come fanno tanti commentatori, morale e politica facendo affermazioni come «è scandaloso, immorale, che gli americani abbandonino i curdi». Oltre tutto, come ha osservato Paolo Mieli (Corriere, 12 ottobre) se fatte dagli inerti e imbelli europei sono affermazioni ipocrite e ridicole. È sufficiente ragionare politicamente. L’abbandono dei curdi è un disastro politico. Come la scelta americana di trattare con i talebani in Afghanistan. Nessun potenziale alleato degli occidentali, in qualunque area di crisi, potrà più fidarsi. È quella cruciale risorsa strategica che si chiama credibilità che è stata compromessa dalla politica di Trump. In un’epoca in cui la competizione per le sfere di influenza fra le grandi potenze è ricominciata con intensità in molte parti del mondo (Europa inclusa), un’America che si gioca la credibilità offre, nei vari scacchieri, un insperato vantaggio alle potenze autoritarie siano esse grandi (Russia, Cina) o medie (Turchia, Iran). L’invasione turca in corso dovrebbe fare riflettere su tre questioni: l’appartenenza della Turchia alla Nato, le sorti dell’Unione europea, la parabola dell’egemonia statunitense. Per quanto riguarda la Nato, non si potrà continuare ancora a lungo a fingere che la Turchia ne sia un membro come un altro. Qualcuno spera che prima o poi il regime inaugurato da Erdogan abbia fine e che la Turchia torni a essere il Paese amico degli americani e degli europei che è stato per decenni. Ma non è così probabile che la rottura, culturale prima ancora che politica, della Turchia con l’Occidente, in nome di una combinazione di islamismo e nazionalismo e del ripudio dell’eredità laica di Atatürk (il padre della Turchia moderna), possa essere riassorbita. Al momento ha ragione Daniele Raineri ( Il Foglio ): non è proponibile l’esclusione della Turchia dalla Nato per un’azione che è stata autorizzata dagli americani. Ma verrà un giorno, in un altro frangente, in cui l’organizzazione dovrà chiedersi: cosa abbiamo ancora in comune con la Turchia? La seconda questione riguarda l’Europa. È sperabile, ma poco plausibile, che l’Unione riesca, in questa crisi, a smentire una convinzione diffusa: quella secondo cui non esisterà mai un’Europa politicamente unita. Nessuna unità politica è infatti possibile se chi dovrebbe unirsi non riesce a essere credibile quando si tratta di agire per provvedere alla propria sicurezza. L’attacco turco ai curdi avvantaggia ciò che resta dello Stat o islamico e non è difficile immaginare che se quella organizzazione rialzerà la testa, se, ad esempio, centinaia di foreign fighters torneranno liberi, l’Europa sarà di nuovo un bersaglio, una zona di guerra, un luogo pieno di nemici da colpire con attentati a catena. Contemporaneamente, c’è da fare i conti con la minaccia di Erdogan (che ha già estorto agli europei tanti soldi) di scaricarci addosso tre milioni e mezzo di profughi se oseremo dargli fastidio. «Biasimare e cond annare» non serve a nulla. Urgono contromisure. Ma non si racconti alle opinioni pubbliche europee la favola secondo cui sarebbe sufficiente un embargo sulla vendita d’armi alla Turchia. Più in generale, vedremo se questa crisi obbligherà l’Unione a dotarsi di quella «visione geopolitica» che non ha mai avuto (Danilo Taino sul Corriere di ieri) e i mezzi e la volontà per sostenerla. O se, come è probabile, ben poco di sostanziale cambierà. Per ora ricordiamo che, come pensava Machiavelli, i «profeti disarmati» non hanno futuro politico. Da ultimo, c’è la questione della parabola della potenza americana. Il suo declino è inevitabile? Forse sì e forse no. L’America continua a essere una società molto più dinamica e più capace di innovazione rispetto alle altre grandi potenze (Cina compresa: non è sicuro che nel lungo periodo una società chiusa possa davvero surclassare una società aperta). E ciò può continuare ad avvantaggiare gli Stati Uniti anche nella competizione internazionale. Ma anche ammesso — e non concesso — che il declino americano sia irreversibile, è certo che i tempi del processo possono essere accelerati o ritardati dalle scelte dell’Amministrazione. Trump, con la sua America first , sta accelerando il processo, ha picconato le istituzioni che hanno sorretto l’egemonia statunitense dal dopoguerra a oggi, ha minato la credibilità dell’America. A tutto vantaggio delle potenze autoritarie. In Medio Oriente e altrove. Non è facile essere ottimisti sulle prossime elezioni presidenziali. Il candidato che più incarna la continuità della politica americana, Joe Biden, è anziano e poco carismatico e le primarie democratiche potrebbero premiare qualche estremista di sinistra. Trump verrebbe allora rieletto trionfalmente. Come è sempre stato negli auspici dei nemici dell’imperialismo americano gli yankee tornano a casa. Si salvi chi può.
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