Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 10/10/2019, a pag.5, con il titolo "Cacciati e sostituiti da altri siriani. Il dramma del popolo senza Stato" il commento di Marta Ottaviani; a pag. 23, con il titolo "Ma schiacciare il Kurdistan giova all'Isis", il commento di Stefano Stefanini.
Ecco gli articoli:
Marta Ottaviani: "Cacciati e sostituiti da altri siriani. Il dramma del popolo senza Stato"
Marta Ottaviani
C'è un'altra guerra che sta per consumarsi oltre la frontiera: quella dei più disperati. Ci sono i curdi, il popolo senza Stato più numeroso del mondo che rischia di venire sradicato dalle terre dove vive da secoli. Ci sono i profughi siriani. Quelli che si ammasseranno contro il muro di oltre 700 chilometri, che segna il confine fra i due Paesi e che troveranno chiuso o con le armate della Mezzaluna pronti a respingerli, ma soprattutto i siriani dall'altra parte della fortificazione che dalla Turchia stanno per tornare a casa. In una terra che però non è la loro, ma quella scelta per loro dal presidente turco Erdogan per ripopolare il Nord della Siria e diminuire l'influenza dei curdi nella regione anche dal punto di vista etnico. Una tragedia fatta di diritti negati, coercizioni e volontà di ridisegnare la mappa, anche quella demografica e umana, di un Paese straziato, dove le potenze attive nella crisi adesso vogliono la loro zona di influenza. In prima fila, c'è la Turchia, che con il pretesto della lotta al terrorismo vuole annichilire la minoranza curda, con oltre mezzo milione di civili che sarà costretto a scappare nel Sud del Paese, cacciato da quella terra rivendicata da anni di lotta come propria, difesa fino all'ultimo uomo dall'avanzata dello Stato Islamico e dove adesso non potranno più nemmeno vivere. Al loro posto, dalla Mezzaluna arriveranno almeno un milione di siriani, che dovranno dare vita a un nuovo Nord della Siria, dove la presenza arabo-sunnita sia preponderante e dove la popolazione veda di buon occhio la presenza di Ankara oltre confine. Il piano del presidente Erdogan è già pronto da tempo. Un vero e proprio protettorato con la costruzione di moschee e università per creare la propria zona di influenza e alleggerire un Paese, la Turchia che ha visto la sua economia e la sua sicurezza interna peggiorare anche a causa della crisi siriana e della presenza di 3,6 milioni di rifugiati. Una marea umana che se fino a qualche anno fa godeva di una politica di porte aperte, nella speranza che venisse mossa guerra al presidente Assad, oggi, dopo nove anni di conflitto e il riposizionamento di Ankara ha cambiato funzione. E dai messaggi di accoglienza si è passati ai piani di ricollocazione. Da settimane a Istanbul è in atto un'operazione per prendere i rifugiati siriani illegali e portarli nelle località turche dove sono registrati. Ankara parla di profughi che tornano in Siria volontariamente, ma dimentica di menzionare gli incentivi economici per agevolare la loro decisione di andarsene. In un quartiere di Istanbul è persino comparso un cartellone nel quale si annunciava trionfalmente che i siriani stavano lasciando la città. E se centinaia di migliaia di siriani si preparano a tornare in patria, c'è chi inizia a temere che una parte possa riversarsi in Europa. Da settimane Cipro, Atene, la Bulgaria fanno pressioni su Bruxelles perché temono che si riapra la rotta balcanica. Bruxelles ieri sera ha diramato un comunicato in cui si chiede alla Turchia di «cessare l'azione militare unilaterale» sottolineando come questa metta a rischio il processo di pace e come la zona di sicurezza che Erdogan vuole costituire difficilmente potrà soddisfare i criteri delle Nazioni Unite. Ma il presidente non solo non arretra, è pronto a chiedere a Bruxelles nuovi fondi per evitare che i profughi raggiungano il Vecchio Continente. Con lui, sa di avere tutto il Paese, al netto dei 15 milioni di curdi turchi che ora guarderanno i loro fratelli siriani ancora più da lontano.
Stefano Stefanini: "Ma schiacciare il Kurdistan giova all'Isis"
Stefano Stefanini
Il sultano Erdogan
Recep Tayyip Erdogan non ha perso tempo. L'offensiva contro i curdi del Ypg (Forze Democratiche Siriane) è cominciata ieri con i bombardamenti aerei. Erano passate poco più di 48 ore dalla strizzata d'occhi di Donald Trump. Seguirà l'esercito, già ammassato. L'intervento turco non si fermerà fino a che non avrà stabilito una fascia di sicurezza su circa due terzi del confine turco con la Siria, comprendenti campi di rifugiati dalla guerra civile e altri dove sono detenuti i terroristi Isis presi prigionieri dal Ypg. Stiamo pertanto assistendo allo scontro fra un paese Nato, la Turchia, e il principale alleato degli Stati Uniti in Siria contro lo Stato Islamico, i curdi. Ma per Erdogan sono tutti terroristi: il Ypg non meno del Pkk (Partito Popolare del Kurdistan) fuori legge in Turchia. La fascia di sicurezza serve anche da separazione fra gli uni e gli altri. L'obiettivo di Ankara è strategico: impedire la formazione di un grande Kurdistan che potenzialmente abbraccerebbe un terzo del territorio siriano, altrettanto di quello iracheno e una fetta non trascurabile dell'Anatolia turca. La Turchia lo considera un pericolo esistenziale e ha sempre visto nel Ypg una spina nel fianco. Appena venuta meno la protezione americana, ne approfitta per togliersela. Sa benissimo che questo nuovo fronte della tragedia siriana avrà pesanti conseguenze umanitarie, creerà nuovi flussi di sfollati e di rifugiati e riaprirà il vaso di Pandora del terrorismo, ridando fiato a Isis. Per far fronte alle forze di Ankara a Nord, le milizie del Ypg lasciano infatti campo libero ai resti dello Stato Islamico a Sud-ovest. Altro beneficiario è Assad che potrebbe adesso estendere il controllo territoriale alla zona curda. I suoi alleati, Iran e Russia, hanno però risposto gelidamente e raffreddano la collaborazione con la Turchia. Ma per Erdogan la ragion di Stato turca getta alle ortiche tutte il resto. Perdenti strategici sono Stati Uniti ed Europa, e i loro alleati regionali, che vedono così svanire sia la tenue influenza che mantenevano sulla crisi siriana attraverso il Ypg sia la ragionevole sicurezza di aver debellato l'idra terrorista in Siria. I curdi erano infatti il vero baluardo contro la recrudescenza dello Stato Islamico. In molti, in Medio Oriente e altrove, si domanderanno quanto ci si possa affidare all'Occidente, specie agli americani. Contro Ankara c'è stata una levata di scudi, in Europa e negli Usa (tranne che alla Casa Bianca), ma non sarà quella a distogliere il Presidente turco dalla determinazione d'infliggere al Ypg una severa batosta militare e un ridimensionamento territoriale, quali che siano le conseguenze. L'Unione europea si è schierata immediatamente e nettamente contro l'intervento turco. Il comunicato intima la cessazione delle ostilità ammonendo contro ingegnerie demografiche sulla pelle dei rifugiati. Ci sono Consigli europei la settimana prossima. Ma l'Ue è vulnerabile al ricatto di Erdogan che può riaprire il rubinetto immigratorio: fino a quanto può spingersi nel far pressione sul Presidente turco? La Nato invece caccia la testa sotto la sabbia; «auspichiamo che la crisi non abbia effetti sistemici troppo gravi» borbottano nei corridoi. L'unica cosa che potrebbe fermare Erdogan è un veto americano. Non è all'orizzonte, a meno che i senatori repubblicani, anch'essi contrari all'intervento turco, non torcano il braccio al Presidente. Il quale dovrebbe far completa marcia indietro. È stata la sua decisione di ritirare le forze americane in Siria a dare, di fatto, la luce verde ad Ankara. Dettata esclusivamente da considerazioni di politica interna: riportare a casa le truppe americane all'estero come promesso alla sua «base». Se per Recep Tayyip Erdogan la molla è la ragion di Stato, per Donald Trump è la ragione elettorale. A tragiche spese degli alleati curdi.
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