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Leggere Brodskij è un buon antidoto contro gli avvelenamenti ideologici
Commento di Diego Gabutti Iosif Brodskij Iosif Brodskij, Conversazioni, Adelphi 2015, pp. pp. 314, 20,00 euro; Solomon Volkov, Dialoghi con Iosif Brodskij, LietoColle 2016, pp. 426, 20,00 euro.
Premio Nobel nel 1987, tra i massimi poeti russi del Novecento ma anche «poeta laureato» negli Stati Uniti, dissidente sovietico senza Ego ipertrofico e senza fanfara, Iosif Aleksandrovič Brodskij, era convinto che «chi ha letto Dickens spara meno facilmente sul proprio simile in nome di un’ideologia di chi non ha letto Dickens», come spiegò ai reali di Svezia e alla stampa internazionale nel suo discorso d’accettazione del Nobel, forse il più bello mai pronunciato a Stoccolma.
Pensava che l’arte potesse fare la differenza, non la politica, e così non si considerava un esponente dell’intellighenzia, incaricato d’una missione per conto di Dio, come Aleksandr Solženicyn e i Blues Brothers. «Ti dico subito con chi hai a che fare», disse a uno dei suoi intervistatori, lo scrittore polacco Adam Michnik. «Io sono formato da tre parti: antichità, letteratura dell’assurdo e ragazzo della foresta. Cerca di capirmi, non sono un intelligent». Nato nel 1940 a Leningrado, oggi di nuovo Pietroburgo e per alcuni San Pietroburgo, scomparso a New York nel 1996, Brodskij era stato in carcere, al confino e in manicomio, ospite della Santa Inquisizione sovietica. Già malato di cuore, era finito sotto processo nel 1964, prima di Sinjavskij e Daniel, colpevoli d’avere pubblicato le loro opere all’estero, quando Solženicyn (che non pronunciò una parola in sua difesa) era ancora il cocco del Novyj Mir, l’organo ufficiale della letteratura sovietica. Quello di Brodskij fu il primo grande processo contro un dissidente russo. Poeta, Brodskij era un dissidente e un cosmopolita («cosmopolitismo», nell’Urss stalinista e post stalinista, era un reato o, nel migliore dei casi, una malattia mentale, l’uno e le altre punibili, o curabili, con la detenzione e il lavoro forzato). Brodskij parlava, puramente e semplicemente un’altra lingua, geologicamente lontana dalla lingua ufficiale, la lingua degl’inni patriottici e degli editoriali della Pravda. Gli chiesero, in tribunale, chi l’avesse autorizzato ad annoverarsi tra i poeti. «Nessuno», rispose lui, e aggiunse: «Qualcuno mi autorizza ad annoverarmi nel genere umano?» Fu condannato a cinque anni di lavori forzati (ne scontò meno di due) per «parassitismo sociale» e perché autore (cito dalla sentenza) di «poesie orrende». Nel 1972 fu accompagnato alla frontiera e messo praticamente alla porta con un visto per Israele. Ebreo, scelse l’America, l'inglese era la sua vera lingua (l’America e la lingua inglese, la lingua del suo maestro W.H. Auden e, strano a dirsi, dei Beatles, di cui alla fine degli anni sessanta aveva tradotto Yellow Submarine in russo: «I testi scritti da John Lennon e Paul McCartney sono assolutamente meravigliosi; in realtà i testi migliori della cosiddetta “musica leggera” inglese e americana non sono poi così leggeri. In una certa misura è un genere inquietante»). Visse anche a Londra (dove ebbe notizia del Nobel mentre era al ristorante in compagnia di John Le Carré) e soprattutto a Venezia (alla quale dedicò un grande libro, Fondamenta degli incurabili, Adelphi 2010). Per un po’ insegnò in Michigan, anche se «il Michigan», disse, «mette un po’ di claustrofobia. È troppo all’interno del continente, tipo una virgola in Guerra e pace, pagine e pagine da entrambe le parti». Poeta classico, non amava il verso libero perché anche se «è più facile esprimere se stessi in versi liberi, il punto centrale della poesia non è esprimere se stessi. La poesia (…) è anche un’arte, sa, e richiede una certa abilità tecnica». Era uno scrittore sobrio, secondi alcuni addirittura gelido, indifferente, metafisico (pensava che la sua poesia si fosse fatta col tempo sempre «più dura, più asciutta, meno emotiva, diciamo più insensibile»). Soprattutto non amava le sciocchezze. «Russia e Stati Uniti? Be’, anche se questa fosse la sola differenza tra le due nazioni, un sistema in cui sono previsti dodici giurati rispetto a uno in cui un solo giudice decide tutto, per me sarebbe già una ragione sufficiente per preferire gli Stati Uniti all’URSS». Temeva, a ragione, che si stesse profilando sull’orizzonte del nuovo millennio un conflitto di tipo religioso «tra spirito di tolleranza e spirito d’intolleranza», disse. «Alcuni suggeriscono che tra questi due princìpi esista una sorta d’equivalenza. Io non me la bevo neanche per un secondo. Per quanto mi riguarda, penso che la visione musulmana dell’ordine universale debba essere schiacciata e annullata». Pensava, infine, che «l’etica da sola non [fosse] in grado di tenere insieme la società. Serve», disse, «qualcos’altro, perché penso che l’etica possa essere facilmente simulata. Non c’è niente di più facile che simulare i nobili princìpi». Viviamo in un mondo che al momento è dominato dai simulatori di nobili sentimenti e da demagoghi intenti a farci bere le più infami e spericolate menzogne. Leggere i versi e i saggi di Brodskij è un buon antidoto contro gli avvelenamenti ideologici. Diego Gabutti Già collaboratore del Giornale (di Indro Montanelli), di Sette (Corriere della Sera), e di numerose testate giornalistiche, corsivista e commentatore di Italia Oggi, direttore responsabile della rivista n+1 e, tra i suoi libri: "Un’avventura di Amedeo Bordiga" (Longanesi,1982), "C’era una volta in America, un saggio-intervista-romanzo sul cinema di Sergio Leone" (Rizzoli, 1984, e Milieu, 2015); "Millennium. Da Erik il Rosso al cyberspazio. Avventure filosofiche e letterarie degli ultimi dieci secoli" (Rubbettino, 2003). "Cospiratori e poeti, dalla Comune di Parigi al Maggio'68" (2018 Neri Pozza ed.) |
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