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La Repubblica Rassegna Stampa
03.10.2019 E' utile conoscere le opinioni dei capi del terrorismo islamico per combatterli e sconfiggerli
Giampaolo Cadalanu intervista un leader dei talebani, commento di Jason Burke

Testata: La Repubblica
Data: 03 ottobre 2019
Pagina: 2
Autore: Giampaolo Cadalanu - Jason Burke
Titolo: «Il capo talebano: 'il burqa non è più obbligatorio' - La cultura tribale di quei miliziani diventati nazionalisti»
Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 03/10/2019, a pag.2, con il titolo "Il capo talebano: 'il burqa non è più obbligatorio' ", l'intervista di Giampaolo Cadalanu al leader dei talebani Qadir Hekmat; a pag. 3, con il titolo "La cultura tribale di quei miliziani diventati nazionalisti", il commento di Jason Burke.

Mentre l'opinione pubblica e i media delle democrazie occidentali attaccano costantemente Donald Trump, solo raramente descrivono il pericolo del fanatismo e del fondamentalismo islamico. E' utile conoscere il pensiero di capi terroristi come Qadir Hekmat, intervistato da Giampaolo Cadalanu, per combatterlo e sconfiggerlo.

Ecco gli articoli:

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Qadir Hekmat

Giampaolo Cadalanu: "Il capo talebano: 'il burqa non è più obbligatorio' "

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Giampaolo Cadalanu

Le strade sono vuote il sabato mattina, nella giornata elettorale. L'appuntamento è proprio nelle ore di massima allerta per il voto presidenziale, con l'impegno ad aspettare qualche giorno per la pubblicazione. Qadir Hekmat - è un nome di battaglia - è nervoso. È uno dei massimi comandanti del vertice talebano, responsabile politico-militare per sette province del Nord dell'Afghanistan, e sembra considerare una prova di coraggio l'idea del colloquio con un giornalista italiano proprio nel blindatissimo centro di Kabul. Si guarda intorno di continuo, si affaccia per controllare in cielo, si siede sui tappeti nella sala dell'ufficio vuoto scelto per l'incontro, poi propone di uscire sul terrazzo, lasciando i telefoni all'interno. Una fotografia è fuori discussione. Di fronte alle insistenze, mette da parte la sua keffyah, se ne fa prestare un'altra e si copre del tutto la testa. Anche sul terrazzo continua a tormentare fra le mani il suo fazzoletto a quadri, e si lascia scivolare su un lato della fronte la cuffia bianca da preghiera. Basta il rumore di un elicottero lontano per fargli incupire lo sguardo. L'espressione non è del tutto amichevole, e la prima frase suona ammonitrice: «È meglio che non andiate in giro per la città, oggi. È pericoloso». La barba corta nasconde a malapena le piccole cicatrici sul volto. Ma sono soltanto vecchie tracce di acne, non di combattimenti. Hekmat ha 35 anni: ne aveva sedici quando è partito l'intervento Usa, dopo l'11 settembre.
Come ha deciso di aderire ai talebani? «Vivevo nel Logar con la mia famiglia, studiavo in una madrassa. All'inizio credevamo che gli americani fossero arrivati per ricostruire il Paese e portare sviluppo. E invece ci siamo accorti che massacravano donne e bambini, che entravano nelle nostre case con la forza, che uccidevano i musulmani oli imprigionavano senza motivo. Non è stato un incidente specifico a farmi decidere che volevo oppormi agli invasori. In realtà non c'è un solo villaggio dove non abbiano commesso crimini di guerra o ucciso innocenti».
Quale è stato il suo percorso? «Ho fatto un anno e mezzo di addestramento in Pakistan: Peshawar, Quetta, Miran Shah nelle zone tribali. Poi sono rientrato, per comandare un primo drappello di trenta combattenti. Obbedisco al mullah Habaitullah Akhundzada, non ho mai incontrato il mullah Omar, ai suoi tempi ero troppo giovane».
Come è organizzata l'attività? «C'è una riunione di vertice ogni due mesi, in coordinamento fra due strutture, i talebani legati alla Shura di Quetta e la rete Haqqani. Ogni network porta le risorse che ha disponibili per le operazioni: intelligence sul posto, armi, combattenti. Non ci sono rivalità, gli Haqqani sono più attivi a Nord e a Est, noi a Sud e a Ovest. Ma uniamo le nostre forze contro gli invasori americani e i militanti di Isis-Khorasan».
Che differenza c'è fra voi Talebani e i fondamentalisti che giurano fedeltà ad Abubakr Al Baghdadi? «Loro sono wahabiti, seguono l'influenza saudita. Di fatto hanno creato una nuova famiglia eretica, con l'aiuto degli ebrei e degli Stati Uniti, per dividere i musulmani. Ma le differenze sono soprattutto nelle operazioni. Noi non attacchiamo mai obiettivi civili, matrimoni, funerali. Americani e Isis, sì».
Ma nei vostri attentati muoiono tanti civili. L'assalto al Green Village, la zona fortificata di Kabul, all'inizio di settembre, è costato la vita ad almeno 16 persone, fra cui diversi bambini. «Ci spiace quando muoiono civili. Ma in certe azioni le vittime sono inevitabili. Noi cerchiamo di colpire quando il pericolo è minore. Quell'attacco è stato condotto di notte proprio per cercare di non coinvolgere i passanti».
Parliamo dei vostri nemici, Isis-K e americani. Li mette sullo stesso piano? «Fanno lo stesso tipo di azioni militari, e collaborano fra loro. Se non fosse perle forze americane, che intervengono ogni volta per bombardarci quando accerchiamo gruppi di Isis-K, questi sarebbero stati spazzati via da tempo. Si vede che gli Usa hanno bisogno di aiuto per i loro piani. Vogliono soltanto impadronirsi delle nostre risorse. Se veramente fossero arrivati esclusivamente per catturare Bin Laden, sarebbero andati in Pakistan. Ma Islamabad è un loro alleato stretto, tanto è vero che non gli hanno mai imposto sanzioni. E quando se ne andranno lasceranno tutte le attrezzature al Pakistan, che pure è la madre di tutti i terrorismi. Mi stupisce che la Nato, Italia compresa, abbiano deciso di seguire gli Stati Uniti in questa operazione sciagurata».
Come giudica la sospensione dei colloqui di pace a Doha tra voi e gli americani? «Noi non vogliamo un bagno di sangue ed eravamo pronti a firmare un accordo di pace, ma gli Usa ci hanno ripensato. Per noi non è un problema. Sul terreno stiamo vincendo, avanziamo senza sosta e abbiamo chi ci sostiene, in Iran, in Russia, in Cina, nello stesso Pakistan. Anche per l'ultimo attacco a Qalat, nella provincia di Zabul, con una grande esplosione su uffici governativi, abbiamo usato esplosivo arrivato da fuori». (Il riferimento è al minivan carico di tritolo che ha devastato un ospedale, uccidendo venti persone, lo scorso 19 settembre).
Ma se conquisterete tutto il Paese, che succederà alle donne? «Hanno un ruolo fondamentale nell'Islam, sono sempre rispettate. L'emirato aveva grandi progetti dedicati alle donne, ma non ha fatto in tempo a svilupparli. Non è vero che siamo contrari all'istruzione femminile, basta che le scuole siano separate da quelle maschili. Nelle zone controllate da noi, le ragazze vanno a scuola regolarmente. E abbiamo anche medici donna, ce n'è sempre necessità. L'acido gettato in faccia alle studentesse? È il gesto individuale di un fanatico».
L'Occidente teme il ritorno della polizia del vizio e della virtù, che frustava le donne secondo il loro abbigliamento. «Mi dica, in Italia una donna può girare nuda senza violare la legge? Non credo, sarebbe subito arrestata. Ecco, quelle sono le vostre regole. La nostra è la Sharia, e prevede che le donne portino l'hijab».
Non il burqa? «Il Corano dice solo che le donne non devono vestire in maniera immodesta».
Insomma il progetto dei Talebani è esattamente la rifondazione dell'emirato islamico, com'era nel 2001? «Da allora il mondo è cambiato. Anche noi Talebani siamo cambiati. Grazie alla tecnologia, soprattutto. Telefoni cellulari, droni, Gps, social media... Oggi pianifichiamo le nostre operazioni militari, attacchi, avanzate e vie di fuga, con Google Maps».
Dell'emirato in Occidente si ricordano soprattutto le punizioni sommarie e le lapidazioni. Non è cambiato nulla nel vostro modo di amministrare la giustizia? «A rispondere dovrebbe essere la popolazione afgana. Nelle province che amministriamo ci segnala i crimini e interveniamo subito. E anche nelle zone contese si rivolge a noi, perché, al contrario della polizia governativa, non chiediamo mazzette per portare la giustizia».
Lei ha mai ucciso qualcuno? Se l'ha fatto, che cosa racconterà ai suoi figli? «Ai miei figli racconterò che ho combattuto per liberare la patria dagli invasori. E che ne sono fiero».

Jason Burke: "La cultura tribale di quei miliziani diventati nazionalisti"

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Jason Burke

Qadir Hekmat è giovane, è nato negli Anni '80. Forse ricorda appena le prime campagne dei Talebani a metà degli Anni '90, quando il movimento portò in Afghanistan un ordine cupo e puritano nel caos che fece seguito al ritiro sovietico. Oggi ha 35 anni e per quasi tutta la sua vita adulta è stato un combattente talebano. Le sue parole dimostrano quanto poco sia cambiato nell'ideologia e nei valori del movimento. I suoi obiettivi e le sue opinioni potrebbero appartenere ai combattenti che intervistai in Afghanistan e in Pakistan vent'anni fa. Quando gli si chiede se i Talebani siano cambiati, Qadir parla solo di tecnologia. Si vanta del fatto che, oggi, i Talebani usano telefoni cellulari, droni, Gps, social media e «pianificano le nostre operazioni militari con Google Maps». In altre parole: l'ideologia rimane la stessa. Alcuni analisti sottolineano la disponibilità del movimento a trattare con gli Stati Uniti, o addirittura a prendere in considerazione una sorta di compromesso politico, come conseguenza e quasi come giustificazione di tutto il sangue versato e delle risorse spese. Ma di Jason Burke questo significa dimenticare che i Talebani fecero degli accordi con la mediazione dei diplomatici statunitensi alla fine degli Anni '90, inviarono dei rappresentanti alle Nazioni Unite e negoziarono con gli operatori umanitari. Un elemento nuovo, naturalmente, è lo Stato islamico, che i Talebani vedono come un nemico, sostenuto dagli Usa e dagli "ebrei". Ma anche questo non significa un nuovo modo di pensare. I Talebani si sono a lungo opposti a qualsiasi altro gruppo che avesse una visione del futuro dell'Afghanistan diversa dalla loro, fosse pure la visione di altri estremisti islamici. Da tempo i Talebani si considerano dei nazionalisti, e mettono gli interessi della loro patria al di sopra di quelli della Umma, la comunità globale dei musulmani, e della Jihad globale. Non hanno mai cercato di espandere i confini dell'Afghanistan, né di stabilire un controllo permanente su altre parti della regione. Si potrebbe obiettare che non è necessario perché, come è evidente nelle parole di Qadir, i loro collegamenti culturali, tribali e di altro genere con il Pakistan e lo stretto rapporto con le fazioni che vi hanno sede manifesta che, quanto meno, esercitano già de facto una significativa influenza in questo Stato confinante. Ma quando Qadir dice di essere fiero di vivere o di morire come combattente, è per la sua "patria invasa" che è pronto a farlo. Non sorprende quindi che, nei recenti colloqui di pace, i Talebani si siano affrettati a garantire che, se avessero un ruolo di potere o di controllo del Paese, non permetterebbero a nessun gruppo o individuo di usare l'Afghanistan come trampolino di lancio per degli attacchi internazionali. Anche questa è stata una posizione storica. Gli attacchi dell'11 Settembre si fecero all'insaputa dei leader talebani dell'epoca e il movimento non è ancora mai stato collegato a episodi di violenza al di fuori della regione. I Talebani si considerano dei patrioti. Ovviamente, ci sono gli aspetti culturali e sociali del progetto dei Talebani. Il movimento trae ispirazione da varie fonti: la tradizione islamica Deobandi ferocemente conservatrice, la pratica religiosa in Arabia Saudita, una visione idealizzata della società rurale afgana, e la cultura tribale tradizionale Pashtun. In questo immaginario mondo "purificato", un'interpretazione letterale dei testi islamici da parte dei chierici fornisce le leggi, e la polizia religiosa le fa rispettare. Le donne, viste come un elemento di disturbo e contaminazione, sono costrette ad obbedire a nonne severe che le riducono a cittadine di seconda classe, proprietà dei loro padri, fratelli e mariti. La giustizia è dura, ma è rapida e onesta, non come quella dello Stato afgano. «A differenza della polizia governativa, noi non chiediamo tangenti per portare la giustizia», dice Qadir. Questa è la visione che motivò i primi Talebani (la parola deriva dal termine persiano che indica gli studenti delle scuole coraniche) 25 anni fa. E allo stesso modo motiva i Talebani di oggi. Rimane la ragion d'essere del movimento, per quanto possano mutare le circostanze politiche o militari. Nel 1998, i muri del ministero degli Affari religiosi di Kabul vennero ricoperti di scritte. Vi si leggeva: «Getta la ragione ai cani, puzza di corruzione». Anche questo principio è molto improbabile che sia cambiato.
(Traduzione di Luis E. Morlones)

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