Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 28/09/2019, a pag.25 con il titolo "Da Brandirali a Moravia a Fo: c'eravamo tanto infatuati" il commento di Mattia Feltri, coraggioso come sempre, e di buona memoria, in tempi come il nostro, conformista a reti unificate.
Mattia Feltri
Quando si parla dei maoisti italiani si corre un rischio, di finire a ridisegnare la storia dei soliti gruppuscoli riscomodati al ritmo delle ricorrenze. Aldo Brandirali, ecco il nome di sempre, leader amatissimo di Servire il Popolo, tendenza maoista, appunto. Siamo a cavallo fra gli anni Sessanta e i Settanta. Brandirali coltivava il senso di colpa di sé e degli accoliti per essere privilegiati per nascita, praticava e imponeva l'autocritica nonché la spoliazione di ogni avere da donare al partito. Paolo Flores d'Arcais, eccone un altro, per il quale la Cina di Mao era una «città celeste». O Rossana Rossanda, che nei 2006, trentennale della morte del dittatore, propose il consuntivo sul Manifesto: «Mao ha fatto per il 70 per cento cose giuste e per il 30 per cento cose sbagliate: grazie al suo 70 per cento noi siamo in un giusto differente. Onore a Mao». Sono onori tributati sempre a una certa distanza, soprattutto dai trenta o quaranta milioni di morti (a certi livelli la statistica più è vaga più è esatta) provocati da uno dei più grandi criminali del Novecento. Eppure affascinò, e non soltanto i gruppuscoli. Alberto Moravia si sdilinquiva per l'«utopia realizzata». Dario Fo per «l'uomo nuovo perché c'e una filosofia nuova». Ce ne sono molti altri. È uno svicolare irresponsabile: poiché l'Urss ormai ha il tratto delle sopracciglia plumbee e burocratiche di Leonid Breznev, oltre all'eredità sanguinolenta di Stalin, ci si butta su Mao, un'idea più movimentista, più fantasiosa, meno protocollare e, ci si illude, meno farabutta del comunismo. Nel 1978 Walter Veltroni intervista Achille Occhetto e analizza «la ricerca di un modello realizzato diverso da quello dei Paesi dell'Est, in grado di raccogliere una domanda di partecipazione delle masse come la rivoluzione sembrava fare». Nel 1976 (lo confessa a Carlo Bonini) uno dei fondatori di Magistratura democratica, Francesco Misiani, assiste in Cina a un processo a quattro disgraziati condannati per acclamazione in uno stadio: «Avemmo la sfacciataggine di esaltare quel tipo di processo sostenendo che lì si realizzava la partecipazione del popolo all'amministrazione della giustizia». L'aberrazione si insinua ovunque, come si vede, e siccome gli abbagli distorcono la vista a lungo, toccherà concludere con quello sgangherato di Charles Bettelheim, storico francese del comunismo, che sentenziò: «La Rivoluzione culturale cinese ha contribuito alla distruzione del mito della pretesa superiorità degli esperti e dei tecnici». Chissà se vi ricorda qualcosa.
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