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La Stampa Rassegna Stampa
24.09.2019 Tel Aviv, è qui il Bauhaus
Analisi di Giulia Zonca

Testata: La Stampa
Data: 24 settembre 2019
Pagina: 26
Autore: Giulia Zonca
Titolo: «Tel Aviv, è qui il Bauhaus»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 24/09/2019, a pag.26, con il titolo "Tel Aviv, è qui il Bauhaus" il commento di Giulia Zonca.

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Giulia Zonca

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Un esempio di architettura Bauhaus a Tel Aviv
Dal cassetto del numero 29 di Idelson Street escono foto in bianco e nero, ricordi privati e memoria collettiva cementate insieme dentro le case Bauhaus di Tel Aviv. Nella stanza che un tempo era il salotto dei signori Liebling e oggi è parte del White City Center, sorride una squadra di calcio in posa e una ragazza sollevata da un ballerino volteggia su un terrazzo assolato del 1934: coriandoli di felicità in anni pericolosi. Il White City Center ha appena inaugurato e già sa che dovrà essere molto più di un archivio per un Paese che brama il futuro e venera la storia. Con la stessa intensità. La città bianca, costruita all'inizio degli anni Trenta sui principi di una scuola architettonica bandita dal Reich, è un'etichetta, è una capsula del passato, è anche un riassunto di conflitti, la risposta a un esodo, la scintilla di una guerra, una spinta, un concentrato di opportunità, e il Centro, aperto con i fondi tedeschi per celebrare i 100 anni di Bauhaus, ha l'ingrato compito di mostrare che il restauro non basta. Celebrare davvero questo stile significa lasciare che viva. Il White Center nasce volutamente quasi vuoto e non c'è praticamente nulla di quello che ci si aspetterebbe di trovare. Si dichiara fin da subito in evoluzione. Non c'è il censimento delle case, né il perimetro tracciato dall'Unesco nel 2003 per tentare di preservare parte dei 4000 edifici in questione, la maggioranza relitti. Non si vedono i progetti, né i lavori di recupero completati, piuttosto una cronologia disegnata sul muro, come le tacche dei bambini che crescono. Date chiave che scavano certezze e diciture scarne per riavvolgere il filo di equilibri fragilissimi. Il Bauhaus, ideale di purezza e funzionalità che i tedeschi ancora ammirano, ma hanno smesso di inseguire, a Tel Aviv ha un altro accento. Un tempo assecondava l'ideale della città giardino, con il verde sotto i pilastri destinati a reggere i piani, spazio per far circolare l'aria secondo i principi di Le Corbusier. Ma qui il Centro si stacca dall'ideologia o almeno ci prova e torna al principio con una mostra che incastra la fuga all'inizio, mescola i soldi dei cattivi con i sogni dei reietti, le piastrelle arrivate dalla Germania nazista con la sabbia usata dagli arabi per costruire. È tutto lì, un mattone sopra l'altro e se ne togli uno crolla l'intero edificio, l'intera storia. Ci sono voluti 50 anni per rispettare il testamento dei Liebling: «Questo posto dovrà essere destinato all'educazione dei bambini o a un museo». Solo uffici fino a qui, fino a che la città bianca ha ripreso a pulsare e ai primi lavori di recupero si è scrostato un muro che ha rivelato mille segreti. Il centro del centro di Tel Aviv, il purissimo Ahuzat Bayit, è nato dal controverso accordo chiamato Haavara, un patto con il diavolo sottoscritto nel 1933, stesso anno della messa al bando del Bauhaus. Non è una scoperta che circa 50 mila ebrei tedeschi siano arrivati in Palestina grazie a lasciapassare ottenuti scambiando i propri beni con materiali del Reich. Venivano poi rivenduti all'allora Mandato britannico con una compravendita tristemente destinata a foraggiare l'industria bellica nazista in epoca di embargo, solo il 25 per cento del totale arrivava ai fuoriusciti, ma il legame non aveva mai toccato il Bauhaus, simbolo della rinascita. La mostra si srotola dietro a un racconto privato, quello della famiglia Liebling: nel singolo container, concesso per ricomporre la propria esistenza altrove, hanno messo mobili Biedermeier e statue di Mosè. Si può leggere la lista dei beni espatriati nella sua brutale essenzialità, si avverte ancora il desiderio impossibile di trainarsi dietro un mondo pronto a crollare. Documenti reali e legami reinterpretati dall'artista Ilit Azoulay che espone in contemporanea a Tel Aviv e alla scuola Bauhaus di Dessau (dal 3 ottobre). Una parentela da riannodare e l'ennesimo nodo da sciogliere. Il Bauhaus è stato usato anche come certificato di ebraismo, ma non aveva forzatamente mire sioniste e diversi architetti scappati dalla Germania dichiarano apertamente, come da lettere esibite nel Centro, di essersi trasferiti a Tel Aviv perché non avevano «altro luogo dove andare». La corrente che ha saputo resistere ora deve imparare a esistere. Per questo c'è un murale che tenta di sviluppare nuove idee urbanistiche e video interattivi che seguiranno la ristrutturazione di Allenby Street, come strada test di quel che può succedere mischiando la necessità di salvare a quella di migliorare. Da lì però, a un certo punto, bisognerà pure uscire e capire come riabilitare gli edifici dell'altra città, meno bianca, sempre carica di un Bauhaus che cade a pezzi, di colori più grigi e popolazione meticcia: i quartieri a Sud, strade quasi abbandonate che invocano attenzione. I progetti nati per essere visionari ora sono costretti a rispettare il proprio Dna nell'intricatissimo compito di includere, allargare, unire. Di non essere solo Dizengoff, la splendida piazza in rigoroso, totale e accecante Bauhaus.

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