Riprendiamo dalla STAMPA - Tuttolibri di oggi, 21/09/2019, a pag. 15 con il titolo "Rawi Hage", l'intervista di Francesca Paci allo scrittore libanese.
Francesca Paci
Rawi Hage
Rawi Hage ricorda, e senza rabbia, i suoi connazionali ammazzarsi vicendevolmente per anni: un terrapieno di sangue tra fratelli scopertisi di colpo nemici giurati. Era un ragazzino alla fine dei ‘70, e ha trascorso l'adolescenza sotto i proiettili incrociati che segnano ancora certi muri sbrecciati di Beirut. Scriveva già un po', all'epoca. Poi vennero l'emigrazione negli Stati Uniti, gli studi a New York, la scelta esistenziale di trasferirsi a Montreal, l'alter ego geografico che ribalta il tribalismo mediorientale in fertile melting-pot. Oggi che alla soglia dei 55 anni è considerato uno degli autori più interessanti della letteratura libano-canadese nonché un pregevole artista visuale, Rawi Hage sembra aver sublimato le ferite del passato nella narrazione di una grande epopea personale e universale, come il suo ultimo romanzo, «Il gioco di De Niro».
La copertina (Fandango ed.)
Che città è oggi Beirut? «E' la città della mia famiglia, la mia tribù, ci torno ogni anno. Al netto di tanti mutamenti, anche demografici, resta una capitale cosmopolita, il riparo sicuro per moltissimi rifugiati, un luogo aperto che ospita una galassia umana in cui, finora, convivono liberali e persone di visioni opposte. Dico finora perché ovviamente Beirut è suscettibile agli umori della regione e può essere vittima della geopolitica. I libanesi ne sono consapevoli e forse è per questo che non si fermano mai, negoziano sempre alla ricerca di una stabilità che è più altro dover essere. Ma Beirut è anche tregua, il porto in cui tutte le fazioni vengono a incontrarsi, è l'ora d'aria per i giornalisti che coprono la regione e che di tanto in tanto hanno bisogno di respirare».
Fanno ancora male le ferite della guerra civile? «Il passato è il tallone di Achille dei libanesi, la violenza, il settarismo. E' il punto di rottura ma in fondo anche la forza del Paese, perché accanto alla religione che intorbida la politica c'è tanta tolleranza. In Libano trovi un po' di tutto, teocrazia, capitalismo, una certa vocazione despotica, pragmatismo, liberalismo. In qualche modo i libanesi sono sempre stati considerati un po' noiosi rispetto agli standard del mondo arabo, non hanno mai sperimentato la dittatura, hanno avuto le loro guerre ma senza sprofondare ai livelli di non ritorno dell'Iraq di Saddam Hussein. In più, entro certi margini, i miei connazionali dicono quello che pensano».
Per molti anni il Medio Oriente è stato il pivot della geopolitica occidentale. Cosa resta oggi che altri attori, dall'Africa alla Cina, hanno occupato quello spazio? «Il pivot è indubbiamente cambiato, sono cambiate le sfide geopolitiche, la crisi economica morde, la politica estera si è adeguata. Eppure la minaccia russa è lì, l'Iran è lì, la Cina, probabilmente, anche. Attraversiamo un momento molto cupo a livello globale ma il mondo arabo è quello più stagnante di tutti, sempre bloccato dentro un meccanismo dittatoriale, religioso o secolare. E' questo che segna il passo, il mondo arabo non è mai riuscito a guadagnarsi l'autonomia».
Nel romanzo Bassam e George si agitano tanto ma alla fine sono fermi. Che si fugga o che ci si batta, non c'è scampo al destino? «Il loro è un bivio universale e loro scelgono la direzione. Quando c'è un conflitto come quello libanese o ti armi o scappi, se resti ai margini finisci isolato. Bassam deve partire per una questione filosofica, non crede nell'ideologia che sostiene quella guerra, si pone un problema esistenziale, non vuole appartenere alla scelta di campo, rifiuta del tutto l'opzione politica. Il suo personaggio ci dice molto sullo sbandamento del presente. George è più contemporaneo, assume su di sé il ritorno della religione, il pensiero binario che va per la maggiore di questi tempi. Alla fine vince George, non me lo aspettavo, quando ho immaginato il romanzo, nel 2004, pensavo che a farcela sarebbe stato Bassam, ma sembra passato un secolo da allora ed è passato in un baleno». Bassam e George sono ragazzi, la giovane generazione araba, una categoria perduta.
Cosa si aspettava dalla primavera del 2011, che a detta dei libanesi era cominciata a Beirut nel 2005, dopo l'assassinio di Hariri? «E' vero, i libanesi sono stati i primi a mobilitarsi per chiedere l'indipendenza da Damasco e hanno fallito perché il Paese era diviso: non siamo una società omogenea e abbiamo idee discordanti sulla casa Libano. In parte è un destino il nostro, con i vicini potenti e voraci che abbiamo. Se il Libano è in perenne cambiamento, politico, demografico o culturale, dipende in qualche misura dalla geografia: sono passati i cristiani, i musulmani, i francesi e l'eco di quel Voltaire che pur avendo influenzato gli intellettuali non li ha resi protagonisti, i nostri intellettuali sono rimasti al margine. Non credo che le primavere del 2011 avessero radici profonde. Tolto il parziale successo della Tunisia, tutto il resto, a cominciare dall'Egitto, rispecchia la tragedia della regione, la stagnazione, i cervelli in esilio, quella peculiare tendenza della religione a invadere tutto. L'illuminismo ha bisogno di menti indipendenti per attecchire e la nostra cultura è ancora parecchio religiosa».
Cosa porta dentro di sé della storia libanese? «Le religioni monoteiste, l'islam, il cristianesimo e l'ebraismo, condividono la medesima cultura di base. Io sono stato cresciuto da cristiano, ho respirato la cultura francese a scuola ma ho assorbito anche l'identità islamica, l'antica poesia araba. Oggi non ho affiliazioni particolari con quel passato, mi considero quasi ateo, la mia letteratura si occupa della natura umana, ma non sento fratture tra chi ero e chi sono».
Arabo per natura e occidentale per cultura, come i puristi definisco con un po' di disprezzo gli intellettuali non organici alla umma? «Non credo nella purezza, specie in quella linguistica. Sono stato educato all'occidentale ma penso che ogni cultura debba guardarsi dai muri identitari, abbiamo bisogno di permeabilità. Non mi sento occidentalizzato ma riconosco il fallimento della cultura islamica: non è stata all'altezza dell'eredità post coloniale. Possiamo imparare però, non dobbiamo restare bloccati in un passato di miseria sociale. La mia identità non è pura ma ambigua, aperta, e non sono solo. L'incontro con la cultura occidentale non è a senso unico, ci sono tante contraddizioni: lo Yemen per esempio, muore sotto i colpi di armi vendute dall'occidente. Ma il Medioriente deve uscire dalla gabbia della doppia morale dove si abbevera della tecnologia di quell'occidente da cui però non vuole apprendere la lezione dei diritti umani».
Bassam e George attraversano tutte le emozioni tranne l'amore. Non è strana questa anaffettività nel Paese più aperto della regione? «Beirut è una città aperta rispetto ai costumi sociali. Ma attenzione, la sua immagine liberale è anche un po' cosmetica, costruita ad arte sul modello occidentale e non su profonde convinzioni filosofiche o su battaglie storiche come l'emancipazione femminile. C'è anche una cultura intimamente religiosa e conservatrice che resiste. Detto ciò, questa immagine essenzialmente superficiale è pur sempre un inizio e sta pian piano diventando identità».
Le donne sono ombre nel romanzo. Come mai? «E' un libro di guerra e la guerra è la professione degli uomini. A mia discolpa voglio dire comunque che anche le donne sono combattenti, lottano per il pane, per l'acqua, per la vita. Ma ci risiamo, il problema è la religione, compresa quella cristiana: i testi sacri alimentano i pregiudizi patriarcali e nessuno li denuncia, tutti parlano dell'interpretazione eppure non c'è ambiguità in quei libri. Mi sorprende che l'occidente sia tanto timido su questo tema e che sia sempre pronto a scusarsi quando si tratta dell'islam. E comunque l'occidente ha come obiettivo l'integrazione, io me la prendo con gli intellettuali arabi e con la diaspora che evitano scientemente l'argomento bloccandoci in un vicolo cieco. Il romanzo ha odori e forme di Beirut.
E' anche un archetipo della guerra civile? «In qualche modo sì, il meccanismo è universale. Ma il libro fa riferimento anche alle classi travolte da ogni guerra civile, alla insita mobilità sociale per cui la guerra è in qualche modo sempre guerra di classe, con i poveri più assetati di potere e più disponibili a correre rischi e i fronti che si moltiplicano».
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