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La Stampa - Il Foglio Rassegna Stampa
17.09.2019 L'Iran attacca l'Arabia Saudita. Trump: 'Pronti a reagire'
Commenti di Francesco Semprini, Daniele Raineri

Testata:La Stampa - Il Foglio
Autore: Francesco Semprini - Daniele Raineri
Titolo: «Attacchi al petrolio saudita, Trump avverte Teheran: 'Armati e pronti a reagire' - La grande umiliazione - Perché Abu Bakr al Baghdadi si fa sentire più ora di quando aveva un Califfato»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 17/09/2019, a pag. 8 con il titolo "Attacchi al petrolio saudita, Trump avverte Teheran: 'Armati e pronti a reagire' ", il commento di Francesco Semprini; dal FOGLIO, a pag. I, con i titoli "La grande umiliazione", "Perché Abu Bakr al Baghdadi si fa sentire più ora di quando aveva un Califfato", i commenti di Daniele Raineri.

Ecco gli articoli:

LA STAMPA - Francesco Semprini: "Attacchi al petrolio saudita, Trump avverte Teheran: 'Armati e pronti a reagire' "

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Francesco Semprini

Minacce reiterate, prove muscolari, ritorsioni piratesche anticamera di azioni militari. È una escalation veloce e drammatica quella che si sta accendendo tra il Golfo persico e lo Stretto di Hormuz dove il bloocco sciita guidato da Teheran ha ingaggiato un confronto violento con Washington e Riad. E con le Nazioni Unite, che invocano il dialogo in vista dell'Assemblea generale dove l'ipotesi di un bilaterale tra Donald Trump e Hassan Rohani, sino allo scorso venerdì, aveva guadagnato la dimensione della realpolitik. Un confronto, quello in corso tra Medio Oriente e Penisola arabica, che ha mutuato la sua dimensione di conflitto regionale in scontro globale, ovvero destinato - come nel caso della guerra in Siria - a coinvolgere un numero sempre più elevato di attori internazionali. Specie se alle parole seguiranno i fatti: Donald Trump ha affermato che gli Stati Uniti sono «pronti e armati», per reagire agli attacchi contro le raffinerie di Aramco, colpite tre giorni fa da droni che si sono abbattuti su un campo petrolifero e un grande impianto di processamento, riducendo d'improvviso la produzione di 5,7 milioni di barili al giorno, il 6% delle forniture mondiali, e hanno dimezzato la produzione petrolifera saudita. Gli Stati Uniti «difenderanno l'ordine mondiale minacciato dall'Iran», ha detto il capo del Pentagono, Mark Esper. Il presidente americano, a differenza di Mike Pompeo, non accusa apertamente l'Iran, ma «c'è ragione di pensare che conosciamo i colpevoli», dice , alludendo all'episodio del drone Usa abbattuto dai Pasdaran perché averebbe invaso lo spazio aereo iraniano. «Hanno insistito sapendo che era una grandissima bugia - ribadisce -. Ora dicono che non hanno nulla a che fare con l'attacco, vedremo». A Washington, insomma, la rivendicazione degli Houthi non convince affatto, anzi alcuni pensano a un gioco delle parti tra la Repubblica islamica e i ribelli sciiti. «Come ha affermato Pompeo non ci sono prove che arrivi dallo Yemen, ma informazioni indicano la responsabilità dell'Iran», ha detto la neo ambasciatrice americana all'Onu, Kelly Craft. Per il «New York Times»le «pistole fumanti» che confermerebbero i sospetti dell'amministrazione Usa sono alcune foto satellitari che mostrano gli almeno 17 punti di impatto negli impianti petroliferi sauditi di attacchi provenienti da Nord o Nordovest, elementi che sarebbero coerenti con un raid proveniente dalla direzione del Golfo Persico settentrionale, quindi Iran o Iraq, dove vi sono installazioni di formazioni legate ai Pasdaran. Dalle parole ai fatti è invece passato l'Iran che, mentre annunciava prossimo rilascio della petroliera britannica Stena Impero, sequestrata a luglio dai Pasdaran nel Golfo Persico, ordinava il sequestro nello stretto di Hormuz di una nave sospettata di contrabbandare gasolio verso gli Emirati Arabi Uniti, con l'accusa di trasportare illegalmente 250 mila litri di gasolio. È difficile pensare al rientro della crisi quando mancano cinque giorni alla ministeriale Onu, come conferma l'inviato speciale Onu, Martin Griffiths. Il quale, sebbene dica che «non è interamente chiaro chi ci sia dietro l'attacco», parla di «incidente estremamente serio, con conseguenze che vanno molto oltre la regione», e rischia di «trascinare lo Yemen» alla deflagrazione finale. Oltre a far saltare l'ipotesi di incontro bilaterale, a meno di un evidente passo indietro degli Usa o dell'Iran. In questo sia Trump che Rohani sono stati chiari: aI momento, all'Onu, le loro strade sono due rette parallele.

IL FOGLIO - Daniele Raineri: "La grande umiliazione"

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Daniele Raineri

Il Pentagono ha diffuso le foto satellitari dell’attacco alle raffinerie che sabato prima dell’alba ha dimezzato la produzione saudita di greggio e fanno sorridere – per quanto non combaciano con le ricostruzioni fatte finora. La milizia houthi – che controlla una parte dello Yemen e ha un rapporto di vassallaggio con l’Iran – ha rivendicato l’attacco e dice di avere usato “dieci droni”, ma nelle foto si contano diciassette punti di impatto. E sono tutti punti d’impatto che guardano verso nordovest, ma lo Yemen si trova dalla parte opposta, a sud. Inoltre c’è un video girato nelle stesse ore che mostra quattro oggetti non identificati sorvolare la città saudita di Hafar al Batin, settantacinque chilometri a sud del confine iracheno, all’altro capo del paese rispetto allo Yemen. Per capire meglio cosa è successo: è come se la Tunisia dichiarasse di avere compiuto un attacco “con dieci droni” contro la città di Roma, ma nelle stesse ore si fossero visti oggetti non identificati nel cielo di Milano diretti verso sud e alla fine i crateri a Roma fossero diciassette. Qualche dubbio sul fatto che la rivendicazione potrebbe essere una copertura diplomatica offerta all’Iran dagli Houthi viene. Le raffinerie colpite sono della Aramco, il gigante saudita del settore petrolifero, e la milizia houthi aveva già attaccato un oleodotto della Aramco a ovest della capitale Riad il 14 maggio. A fine giugno un articolo molto importante del Wall Street Journal aveva rivelato che gli americani avevano inviato un report confidenziale al governo iracheno in cui scrivevano che quell’attacco del 14 maggio contro l’Aramco non era partito dallo Yemen, come tutti credevano, ma era partito dal sud dell’Iraq che è infestato da milizie filoiraniane. Lo schema funziona così: quando l’Iran decide di attaccare le infrastrutture petrolifere dell’Arabia Saudita per ragioni di opportunità militare può scegliere di farlo dall’Iraq – perché è più vicino e quindi gli attacchi hanno molte più probabilità di successo – grazie alla presenza di milizie che sono irachene ma obbediscono agli ordini dell’Iran. Oppure può attaccare dall’Iran stesso. Ma siccome sarebbe molto grave ammettere che gli attacchi contro i sauditi arrivano dall’Iraq o dall’Iran, perché potrebbe cominciare una guerra, allora la milizia houthi offre copertura diplomatica e li rivendica. Del resto negli ultimi due anni gli houthi hanno lanciato più di 250 attacchi con droni e missili balistici contro il territorio dell’Arabia Saudita (fonte Long War Journal), quello che dicono viene preso per buono. Ieri una fonte dell’Amministrazione Trump ha detto alla rete Abc che gli iraniani hanno attaccato con missili cruise dal territorio dell’Iran e anche il segretario di stato, Mike Pompeo, sabato aveva accusato l’Iran e aveva detto che non ci sono elementi per dire che l’attacco fosse partito dallo Yemen. Ieri Pompeo ha aggiunto che ci sono invece elementi che escludono l’Iraq come base di lancio e questo fa pensare che l’attacco sia partito dall’Iran. In un video girato da terra durante l’attacco si sentono colpi d’arma da fuoco, sono le guardie delle raffinerie che tentano di abbattere i droni che volano a bassa quota e questo potrebbe voler dire che si è trattato di un attacco misto, con missili cruise e con droni carichi di esplosivo. E’ stata un’operazione non banale, che ha colpito l’installazione petrolifera che tutti gli analisti considerano il cuore del sistema Aramco e che tutti indicavano come il bersaglio che dev’essere protetto il più possibile. Considerato che ora la produzione è diminuita di cinque milioni di barili di greggio al giorno e che i sauditi hanno riserve per 188 milioni di barili, ci sono 37 giorni di tempo per rimettere le cose a posto oppure fra poco ci sarà meno greggio sul mercato mondiale – e il fatto che il prezzo si sia alzato indica che è un’ipotesi realistica. L’America ha già detto che se sarà il caso interverrà anche con le proprie riserve per supplire al greggio saudita mancante e per mantenere calmo il mercato. C’è un altro particolare tecnico non ancora verificato che contraddice la versione “è il solito attacco della milizia houthi”. Da sabato circolano foto di pezzi di missile caduti in territorio saudita. Non è possibile verificare l’autenticità delle foto, ma Fabian Hinz – un analista militare molto esperto in questo campo – scrive che un pezzo è identificabile con chiarezza come un motore jet modello TJ-100. Quel modello di motore jet è usato in un nuovo tipo di missile che si chiama “Quds 1” ed è stato utilizzato quest’anno in almeno un altro attacco dalla milizia houthi. Il nome del missile, Quds in arabo vuol dire Gerusalemme, non deve stupire: gli houthi sono fanatici e hanno per motto “Morte a Israele e morte all’America, vittoria all’islam”, ma non è questo il punto. Il missile Quds è un ordigno imparentato con i missili iraniani ma a suo modo nuovo e quindi è come se gli houthi avessero un loro programma missilistico sperimentale – cosa che è ovviamente falsa, perché fino al 2014 erano una tribù di montagna confinata nel nord del paese più arretrato del mondo arabo e poi di colpo hanno cominciato a rivendicare attacchi con missili balistici e droni contro bersagli anche a mille chilometri di distanza che si trovano in Arabia Saudita (che ha speso quasi settanta miliardi di dollari nel 2018 per potenziare le sue difese). Il conflitto tra houthi e sauditi potrebbe essere usato dagli iraniani per testare armamenti di nuova produzione. Ed ecco il particolare tecnico fondamentale: quel motore TJ-100 ha un’autonomia che è inferiore alla distanza tra il confine yemenita e le raffinerie saudite colpite alle quattro di mattina di sabato scorso. Quindi se chi ha lanciato quell’attacco ha usato i missili Quds 1 il punto di lancio non poteva essere in Yemen (più di mille chilometri a sud) ma è compatibile con l’Iran (seicento chilometri a nord-ovest). Tutte queste informazioni però valgono poco, perché l’aggressione alla capitale del sistema petrolifero saudita per adesso rientra in quella categoria mediorientale di attacchi conosciuta come “tutti sanno chi è stato, ma si farà finta di non saperlo”. L’Iran ha negato con sdegno le accuse di Pompeo e ha detto che dalla strategia della “massima pressione” l’America è passata alla strategia “del massimo inganno”. Eppure basterebbe mettere in fila le dichiarazioni iraniane. Nel luglio 2018 il presidente iraniano Hassan Rohani aveva detto che se l’America avesse fermato le esportazioni di greggio iraniano allora anche le esportazioni di greggio dei paesi vicini avrebbero subito contraccolpi. E’ una dichiarazione di cui tutti si sono ricordati a maggio, quando una mano misteriosa ha cominciato a sabotare le superpetroliere che passavano nello Stretto di Hormuz. A novembre 2018 un ayatollah molto vicino a Khamenei, Ahmad Alamalhoda, disse in pubblico che l’Iran aveva già trasferito alla milizia houthi in Yemen la tecnologia necessaria a colpire i siti della Aramco in Arabia Saudita se l’Iran avesse dato l’ordine. Che sia stato un attacco misto degli houthi e dell’Iran, oppure soltanto dagli houthi o soltanto dall’Iran, il succo è lo stesso: è stata un’operazione molto più grande e organizzata del solito che ha avuto conseguenze molto serie. Quindi viene da chiedersi perché il regime iraniano ha deciso di autorizzarla proprio adesso che si parla molto di un possibile incontro tra il presidente americano Donald Trump e il presidente iraniano Rohani. Questa settimana comincia come ogni anno l’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York. E’ l’unica occasione di Rohani per andare in America e da settimane ci si chiede se Trump sfrutterà questi giorni per ottenere finalmente un incontro storico e spettacolare con il leader iraniano, nello stesso stile di quello organizzato con successo mediatico (ma zero risultati concreti) con il dittatore Kim Jong Un della Corea del nord. Gli iraniani hanno compreso da tempo che Trump desidera molto questo evento, perché gli permetterebbe di dire che è un negoziatore più abile del predecessore Obama. Trump brama strette di mano senza precedenti con gli iraniani davanti alle telecamere di tutto il mondo e ha già dato molti segnali. A giugno ha bloccato un raid aereo americano contro l’Iran mentre gli aerei erano già in volo e ha rinunciato alla rappresaglia per l’abbattimento di un aereo spia – e nelle stesse ore attraverso canali diplomatici ha chiesto agli iraniani un incontro. Due giorni dopo ha ringraziato gli iraniani per non avere abbattuto anche un aereo militare americano che volava vicino a quello colpito. La settimana scorsa ha cacciato il suo consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton, perché Trump voleva assecondare la richiesta iraniana di togliere le sanzioni e Bolton invece si opponeva. Trump ha un debole per i negoziati scenografici – dieci giorni fa ha annullato all’ultimo momento un meeting con i talebani a Camp David – e gli iraniani stanno sfruttando questa sua debolezza. L’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad, considerato un falco, è arrivato a blandire Trump in pubblico e ha detto che è un uomo d’affari abile con il quale è possibile intendersi. Ieri il presidente americano ha realizzato che questa sua voglia di incontrare i nemici senza chiedere loro in cambio nessuna condizione è troppo palese e tradisce debolezza e quindi ha scritto in un tweet che è un’invenzione della solita stampa. Fake News. Eppure a giugno aveva detto in tv di essere pronto a incontrare gli iraniani “senza condizioni”. E poi lo aveva detto anche a luglio. E poi la stessa cosa è stata ripetuta il dieci settembre da Pompeo e anche dal segretario al Tesoro, Steve Mnuchin, e dal portavoce del dipartimento di stato. A questo punto, le interpretazioni del raid iraniano in Arabia Saudita sono due. O il regime ha deciso di sbattere la porta in faccia a Trump e di chiudere a qualsiasi negoziato oppure ha deciso di arrivare all’eventuale incontro da una posizione di vantaggio. Shaping, dicono gli inglesi, dare la forma agli eventi. Se Rohani stringerà la mano a Trump a New York (ed è da vedere se succederà davvero) non lo farà da leader di una nazione messa in ginocchio da sanzioni economiche quasi intollerabili, ma da responsabile del bombardamento contro il sito petrolifero più strategico dell’Arabia Saudita, che come tutti sanno è alleata di Trump. Abbiamo la capacità di colpire la produzione di greggio pure noi, è il messaggio implicito, abbiamo mezzi che vanificano tutte le spese militari che avete fatto per proteggervi dagli attacchi, incluse le costose batterie di missili Patriot acquistate dai produttori americani. Gli attacchi con i droni e con i missili contro i siti petroliferi sauditi, i raid israeliani in Siria e in Iraq, le minacce di Hezbollah dal Libano, la guerra in Yemen, la presenza di soldati americani in Iraq, Siria e Arabia Saudita, la crisi di sicurezza nello Stretto di Hormuz e l’ascesa delle milizie schierate con Teheran fanno parte di un solo grande schema che vede il blocco iraniano contrapposto agli altri. L’America in questo schema è diventata l’elemento debole.

IL FOGLIO - Daniele Raineri: "Perché Abu Bakr al Baghdadi si fa sentire più ora di quando aveva un Califfato"

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Roma. Il capo dello Stato islamico, Abu Bakr al Baghdadi, ieri ha diffuso un messaggio audio a soli cinque mesi dalla sua ultima apparizione – in video. E’ come se in questo momento di crisi del gruppo volesse farsi sentire di più e da poco sappiamo che questa è una richiesta molto diffusa tra i suoi sottoposti. La settimana scorsa dotti e leader dissidenti dello Stato islamico che mandano messaggi attraverso un canale Telegram hanno pubblicato alcuni dei consigli inascoltati che avevano mandato ad al Baghdadi quasi un anno fa. E’ un testo che risale alla fine del 2018, quando lo Stato islamico era assediato in una striscia di terra in Siria, ed è stato pubblicato ora perché i dissidenti vogliono dimostrare che loro tentavano di dare buoni consigli al capo, ma che lui non li accoglieva. La richiesta numero uno era: mostrati di più, quando sparisci per dieci mesi di seguito senza dare cenni tutto lo Stato islamico rimane senza indicazioni chiare e senza il suo collante e ha l’impressione che tu sia fuggito, abbandonando tutti al loro destino (e in effetti Baghdadi in quei giorni non era più in quella striscia di terra circondata dai nemici, era già al sicuro altrove). Il capo dello Stato islamico non prende in considerazione questi consigli, ma potrebbe pensare che non sono infondati e questo spiegherebbe perché è tornato a farsi sentire così presto. Prima incideva un solo messaggio all’anno, adesso siamo già a due in pochi mesi – e va considerato che ogni produzione di questo tipo da parte della casa madre al Furqan che si occupa delle produzioni più importanti del gruppo terroristico viola la bolla di sicurezza del capo, perché è necessario che un corriere prenda in consegna l’audio, e quindi anche se soltanto per poco espone Baghdadi ai suoi inseguitori. Inclusi i servizi di sicurezza di mezzo mondo. Il discorso non presenta novità sostanziali e risponde indirettamente anche a un’al - tra lamentela dei detrattori interni, che accusano Baghdadi di avere abbandonato i prigionieri, uomini e soprattutto donne. Il capo dello Stato islamico chiede che siano liberati, se necessario anche pagando un riscatto. Il recupero dei prigionieri e l’onore delle donne è un tema molto ricorrente nello Stato islamico e del resto la seconda, massiccia campagna di cui si occupò Baghdadi quando divenne capo del gruppo nel 2010 fu proprio quella per liberare centinaia di membri del gruppo dalle carceri irachene, a volte con assalti armati e a volte con mazzette (la prima invece consistette in una serie di attacchi multipli che avevano la caratteristica di consumarsi nel giro di poche ore ma in tante città diverse). Per il resto Baghdadi tenta di convincere i delusi creati dalle mille crisi mediorientali, dalla repressione in Egitto alla sconfitta militare in Siria fino alla giunta militare in Sudan e al conflitto eterno in Yemen, che il jihad è la sola soluzione possibile. Quindi, dice, se persone che fino a ieri combattevano in altre fazioni o addirittura per i governi comprendono di avere sbagliato e vengono ad arruolarsi nello Stato islamico, accettateli. E’ l’istituto della tawba, il pentimento, molto usato per ingrossare i ranghi del gruppo – molto degradati rispetto a qualche anno fa.

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