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Omaggio a Osip Mandel’štam
Analisi di Giuliana Iurlano Osip Mandel’štam Osip (Iosif) Mandel’štam, il grande poeta ebreo-russo di origini polacche, morto nel 1939 (o, forse, nel 1940) in una tranzitka, una baracca di transito verso il Gulag siberiano, e celebrato da Varlam Šalamov ne I racconti della Kolyma, aveva raccontato nei sui versi che non si sentiva “contemporaneo di nessuno” – “No, mai di nessuno fui contemporaneo,/ non so che farmene di tanto onore” – in quello che egli stesso aveva definito come il “secolo cane-lupo”, un secolo che, soprattutto nella Russia sovietica, metteva il bavaglio alla letteratura e mandava a morte o nei Gulag chi non si atteneva alla linea ufficiale del partito. Già subito dopo la rivoluzione, Mandel’štam ne coglie il “fardello fatale” – “Celebriamo il crepuscolare fardello del potere,/ il suo torchio insopportabile./ Chi ha cuore, tempo, non può non sentire/ il tuo scivolare di nave verso il fondo” – anche se rifiuta l’azione e sceglie di vivere da “isolato” gli eventi del suo tempo. In molti suoi versi, aleggia in sottofondo l’insistente ricordo del mondo ebraico, delle sue radici antiche; Mandel’štam, infatti, come ricorda la moglie Nadežda, non dimenticò mai la sua condizione di ebreo, ma la sua “memoria del sangue” tendeva a riportarlo indietro agli antenati più lontani, alla Spagna, al Mediterraneo, ai pastori e ai re della Bibbia, agli ebrei alessandrini e spagnoli, poeti e filosofi.
Il capolavoro di Varlam Salamov (Adelphi ed.) In “Viaggio in Armenia”, il poeta vede la “sorella minore della terra giudaica”, un “paese sabbatico”, legato dall’Ararat alla Bibbia e agli avi lontani. Dai versi di Mandel’štam emana soprattutto una forza inconsueta: la parola cristallina e marmorea delinea una realtà priva di libertà, una vita soggiogata e costretta a scelte ideologiche, una protesta che si fa universale e che investe il potere ai suoi più alti livelli. Dal 1923, come racconta Nadežda, Mandel’štam cominciò improvvisamente ad essere ignorato: il suo nome sparì dagli elenchi dei collaboratori di tutti i giornali ed ebbe inizio il suo isolamento ufficiale. Ma ciò non impedì al poeta di proseguire nella sua critica soprattutto a Stalin, il “montanaro del Cremlino”: “Viviamo senza neanche l’odore del paese,/ a dieci passi di distanza non si sentono le voci,/ e ovunque ci sia spazio per un mezzo discorso/ salta sempre fuori il montanaro del Cremlino./ Le sue dita dure sono grasse come vermi,/ le sue parole esatte come fili a piombo./ Ammiccano nel riso i suoi baffetti da scarafaggio,/ brillano i suoi stivali./ Ha intorno una marmaglia di ducetti dagli esili colli/ e si diletta dei servigi di mezzi uomini./ Chi miagola, chi stride, chi guaisce/ se lui solo apre bocca o alza il dito./ Forgia un decreto dopo l’altro come ferri di cavallo:/ e a chi lo dà nell’inguine, a chi fra gli occhi. sulla fronte o sul muso./ Ogni morte è una fragola per la bocca/ di lui, osseta dalle larghe spalle”. Egli aveva provato a vivere di letteratura, ma pubblicare articoli era diventato per lui sempre più difficile, soprattutto perché Mandel’štam non aveva accettato di “riorientarsi”: aveva ormai compreso, infatti, che si viveva in un’era tragica e che il vero luogo deputato alla tragedia non era il palcoscenico, ma la vita quotidiana della gente comune in una società completamente priva di libertà com’era quella sovietica. Mandel’štam credeva ancora nell’uomo, nell’individuo, e non accettava di essere inglobato nel meccanico e burocratico “noi” dell’ideologia sovietica; per questo scriveva con coraggio la sua protesta: “Se mi prendessero i nostri nemici/ e gli uomini smettessero di rivolgermi la parola;/ se mi privassero di ogni cosa al mondo,/ del diritto di respirare e di aprire le porte/ e di ripetere che ci sarà la vita/ e che è il popolo giudice che giudica;/ se osassero tenermi come un animale/ e per terra mi gettassero il cibo/ – non resterò in silenzio, non trangugerò il dolore”.
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