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Corriere della Sera Sette Rassegna Stampa
06.09.2019 Daniel Liebeskind si racconta: la Shoah e l'infanzia in Polonia, Israele, New York
Lo intervista Alessandro Cannavò

Testata: Corriere della Sera Sette
Data: 06 settembre 2019
Pagina: 33
Autore: Alessandro Cannavò
Titolo: «'Abbiamo trafitto il male con la luce'»
Riprendiamo da SETTE di oggi, 06/09/2019, a pag. 33, con il titolo 'Abbiamo trafitto il male con la luce', l'intervista di Alessandro Cannavò a Daniel Liebeskind.


Daniel Liebeskind

Giorno dopo giorno, la torre di Daniel Libeskind del complesso Citylife a Milano (chiamata familiarmente Il Curvo) rivela nel suo imponente profilo un insolito aspetto intimista.

Architetto, è qui l'ispirazione che lei ha più volte dichiarato alla Pietà Rondanini di Michelangelo? «Certo, quella curva è tutt'altro che un eccentrico aspetto formale. Riprende il movimento di una scultura che ha il senso dell'attenzione, della cura, dell'empatia. La torre non si lancia verso il cielo, si rivolge alle persone che stanno sotto nella piazza: è in dialogo con loro». Settantatré anni, Libeskind, ebreo polacco naturalizzato americano, un'infanzia da enfant prodige della musica, autore del museo ebraico di Berlino e del masterplan che ha fatto rinascere l'area di Ground Zero a New York, è convinto che l'architettura sia un mezzo per difendere la democrazia. Lo ribadirà il 4 settembre a Pescara nella lectio magistralis che terrà in occasione dell'Ethic Award assegnatogli dall'Oscar Pomilio Blumm Forum.


Il progetto sul World Trade Center

Lei parla di democrazia. Eppure i grattacieli che sorgono in tutto il mondo sono spesso l'emblema del potere: politico, economico, finanziario... Un'immagine uniformata, stupefacente ma poco accogliente. «L'immagine imposta dalla febbre speculativa. Ma è proprio quello che l'architettura responsabile deve smentire: i grattacieli sono una grande sfida di tecnologia e di sostenibilità, dai materiali ai consumi energetici sono una soluzione per densificare le città e limitare gli spostamenti. Ma questa parte intangibile e dunque invisibile non è la più importante. Quello che conta è il linguaggio della cultura e della memoria. Si possono fare torri uniche perché legate al Genius loci, così come lo erano quelle medievali di San Gimignano. E attorno alle torri oggi possono nascere spazi dove le persone si mescolano, dove si annullano le differenze sociali. Le città ne hanno un estremo bisogno. Per sconfiggere pregiudizi e paure».

Che cos'è la memoria per uno come lei che ha avuto ben 85 familiari trucidati dal nazismo? «La mia famiglia si salvò fuggendo dalla Polonia nel '42, rifugiandosi in un villaggio uzbeko. Finita la guerra i miei genitori vollero tornare in patria. Papà si mise a vendere sale a Varsavia, mia madre, incinta di me, decise di partorire a Lodz, a casa dei parenti di mio padre. E lì scoprì che non si era salvato nessuno. Nacqui in un ospedale di rifugiati. Nella mia vita non ho avuto né nonni, né zii».

E questa drammatica storia familiare che cosa le ha insegnato? «Mi ha fatto sempre riflettere su come possiamo rompere il legame con la crudeltà, la violenza; come possiamo forgiare un mondo che abbia spazi per unire la gente. Anche quando mi hanno affidato il Museo ebraico di Berlino ho subito pensato che quell'edificio dovesse essere molto di più di un memoriale. Dovesse guardare anche al futuro. Raccontare e rilanciare tutti gli aspetti vivi, costruttivi della presenza ebraica in Germania. La memoria è un trampolino per andare avanti. Ma deve combattere sempre con i dittatori e i nichilisti: per loro la memoria è un ostacolo. L'architettura nella sua fisicità diventa così un baluardo della memoria: non puoi distruggerla con un clic».

Questo legame tra passato e futuro si ritrova oggi nell'area di Ground Zero a New York? «Il progetto è completo all'85%, ci sono la Freedom Tower con la sua altezza simbolica di 1776 piedi come la data della dichiarazione d'indipendenza, il memoriale dell'attacco terroristico, l'hub di trasporti Oculus, ci sarà presto il nuovo centro di Arti Performative. Ma il mio intento da responsabile del masterplan non era di concentrarsi sui singoli edifici, era di creare un quartiere vivo a Lower Manhattan. Dopo tante difficoltà e grandi dibattiti, ci siamo riusciti: Ground Zero oggi è il nuovo centro magnetico di New York, ci vivono 350 mila persone, oltre agli uffici sono sorti negozi, abitazioni, scuole, aree per famiglie. Prima dell'11 settembre questa parte di Manhattan, l'area di Ground Zero dopo la ricostruzione su progetto di Libeskind: nella foto svetta verso il cielo la Freedom Tower. A Ground Zero oggi vivono 350 mila persone, è il nuovo centro magnetico di New York della città era il cimitero del capitalismo: finito l'orario di lavoro, le strade restavano vuote e cupe. Oggi abbiamo sconfitto il male con la luce».

Che effetto le fece New York quando arrivò da Moses und Aron ragazzino? «Nel '59 con la mia famiglia fui tra gli ultimi emigranti giunti su una nave. Venivamo da Israele, nostro primo approdo dopo aver lasciato la Polonia del regime comunista. A me, ragazzino di 13 anni, vedere profilarsi all'orizzonte quello skyline incredibile diede subito un senso di libertà, forse perché avevo lasciato un mondo totalitario. Mio padre andò a lavorare in una tipografia vicino a Ground Zero. Quand'ero studente spiavo il cantiere del World Trade Center, era un progetto straordinario, diverso dagli altri. Quando mi hanno affidato il masterplan della ricostruzione mi sono sentito uno di casa».

Fu negli anni dell'adolescenza che decise di cambiare il suo destino? Quella foto da bambino mentre suona una fisarmonica fin troppo grande per lei, faceva presagire una carriera da musicista.... «La fisarmonica fu il mio primo contatto con l'Italia, era stata fatta a Castelfidardo. Prima di emigrare partecipai a un programma alla tv polacca: non mi limitavo alla musica popolare, suonavo anche Bach. In Israele fui tra i premiati dell'Israel-American prize, tra i giurati c'era il grande violinista Isaac Stern, stupito di cosa riuscissi a fare con la tastiera verticale. "A questo punto", mi disse "hai assolutamente bisogno di un pianoforte". Continuai gli studi di musica in America, dove però cominciai a interessarmi anche di pittura e di matematica. Scelsi una scuola speciale scientifica, spinto anche dal clima della grande corsa allo spazio degli anni 6o. Diciassettenne, decisi di punto in bianco di non suonare più: capii che non avrei raggiunto al pianoforte il livello che avrei voluto. Scoprii l'architettura: è la sintesi perfetta di tutti i miei interessi».

Lei ha sempre sottolineato la stretta connessione tra musica e architettura. Sostiene che il più grande architetto sia Bach... «Entrambi sono linguaggi universali che abbattono le barriere culturali. Ma non è solo questo. L'architettura per me deve avere tempi, ritmi, contrappunti, dissonanze, senso della danza. Una vera partitura. Per il Museo ebraico mi sono ispirato all'opera incompiuta di Schoenberg Moses und Aron ho cercato di trasporre la dicotomia tra i due personaggi biblici in uno spazio architettonico imponente ma acusticamente vuoto. Non ci sono solo la bellezza visiva e la consistenza tattile. In un edificio conta anche l'udito. Il suono ci dà il senso del mondo. Io continuo a suonare con l'architettura».

Anche le tre torri di Citylife a Milano sembrano voler "danzare"... «II dialogo con gli edifici di Isozaki e Iladid creerà una delle piazze più interessanti d'Europa. Degna di una città energica come Milano. Qui ho vissuto negli anni Ottanta, qui sono andati a scuola i miei figli e ho avuto un legame strettissimo con Aldo Rossi, il mio mentore: grande architetto, anche straordinario poeta e scrittore. Il suo saggio L'architettura della citta resta per me un libro fondamentale. Milano è oggi una delle città più dinamiche nel mondo».

Questa visione scintillante non nasconde però l'altra faccia, quella del disagio, sempre più evidente nelle metropoli... «Credo che le metropoli non siano minacciate tanto dall'inquinamento ma dalle ineguaglianze sociali, dal fatto che le persone che lavorano in città non possano permettersi di viverci. Il dibattito sull'architettura non può ruotare solo attorno alla sostenibilità ambientale: dobbiamo impegnarci di più nell'housing sociale, portare la bellezza del progetto negli edifici low cost. È possibile, non ci sono scuse. Sto realizzando 200 appartamenti per anziani a Brooklyn, presto annuncerò altre iniziative simili a Long Island e a Detroit».

Qual è la frase che vorrebbe lasciare al posteri? «Questa: per essere ricordato nel futuro, devi avere fiducia nel futuro».

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