Roman Polanski a Venezia: una campagna di delegittimazione all'insegna di MeToo 02/09/2019
Roman Polanski a Venezia: una campagna di delegittimazione all'insegna di MeToo Commento di Diego Gabutti
Roman Polanski
Alla regista ignota, membro della giuria d’un prestigioso premio cinematografico, non piace il regista ricco e famoso, autore d’un film in concorso (forse, per non dire certamente, il più meritevole). Non è invidia per i suoi film, che tutti conoscono e che (esagerando un po’) sono quasi sempre belli o almeno passabili. C’entra anche l’invidia, naturalmente: siamo umani, dopotutto, e anche la regista ignota lo è. Ma è un’invidia di tipo nuovo: un’invidia #meetoo, o più precisamente un’invidia new age, corretta pregiudizio religioso. Bravo finché si vuole, un capitolo vivente di storia del cinema, vanto dei Cahiers du cinéma, il regista famoso quarant’anni fa ha dato scandalo, approfittando d’una ragazzina drogata durante una festa sopra le righe a casa di Jack Nicholson, mentre la regista ignota è pura, senza peccato. Ne consegue che, se ci fosse giustizia, lui dovrebbe essere ignoto e lei famosa. E invece no. Lui ha diretto Chinatown, Frantic, Rosemary’s Baby e Per favore, non mordermi sul collo; lei La mujer sin cabeza e La niña santa. Lui tre o quattro capolavori del cinema, lei ciofeche senza storia. E Dio? Dio niente. Non ha punito l’infame ma anzi lo ha premiato. Perché? Cosa gli gira? Chi lo capisce, Quello?
Un fotogramma del film "J'accuse"
Mentre lei, Lucrecia Martel, s’interroga su questioni metafisiche che giusto Woody Allen (altro regista destinato alla dannazione eterna) quand’è in vena, Roman Polanski medita su un peccato commesso quarant’anni fa, in un altro tempo e in un altro paese. Non era, intendiamoci, un peccato da poco, e fa bene a pentirsene. Polanski era stato infatti accusato di «violenza sessuale con l’ausilio di sostanze stupefacenti» ai danni d’una ragazzina, reato poi derubricato a «rapporto sessuale extramatrimoniale con persona minorenne», e lui se ne dichiarò colpevole. Era la California del 1977. Otto anni prima, in quella che poi sarebbe passata alla storia minore delle controculture come summer of love, l’estate dell’amore, gli hippies da horror film della famiglia Manson piombarono nella villa di Polanski a Bel Air e trucidarono lì per lì tutti i presenti: il regista era assente, a Londra per lavoro, ma l’attrice Sharon Tate, sua moglie, fu massacrata insieme ai suoi amici. Incinta di otto mesi, la Tate fu uccisa a colpi di forchetta (e i Weathermen, cioè le Brigate rosse «sesso, droga e rock’n’roll» americane, non si salutarono più, da quel giorno, col pugno chiuso comunista, ma con le dita aperte «nel segno della forchetta», per dire che summer of love fu quella). C’era qualcosa di malvagio nell’aria delle controculture: le poesie di Allen Ginsberg e le melodie di Bob Dylan e dei Creedence Clearwater Revival avevano un lato oscuro, una sorta di côté pape-satan-aleppe, e il regista di Rosemary’s Baby doveva saperlo bene. Hollywood Babilonia, signori. E senza che ciò giustifichi nessuno, tanto meno chi approfitta di ragazzine drogate, tirava evidentemente una brutta aria anche a casa di Jack Nicholson, quella sera del 1977. Chi rompe paga, e Polanski ha pagato, con l’esilio da Hollywood e con decenni d’ostracismo, sempre a rischio d’essere estradato in California, dove non ha scontato per intero la sua pena. Quanto alla famiglia della tredicenne, che non era la famiglia Manson, questo no, ma che era comunque abbastanza horror da mettere una bambina a disposizione delle star, ha incassato il suo Leone d’Oro già da molto tempo: più dollari di quanti se ne incassino onestamente in due o tre vite. Ma la regista della Mujer sin cabeza è dell’idea che i reati sessuali non si paghino mai abbastanza. Niña santa, Lucrecia Martel pensa che il femminismo, nato al mondo per combattere i bigotti, sia un bigottismo radicale, come l’islamismo. Femminista in caricatura, femminista non soltanto #meetoo ma anche 5stelle, Martel dall’orecchio della prescrizione non ci sente: galera, fuoco eterno e niente film di cassetta per i registi peccatori. Ai clienti delle prostitute ogni tanto si minacciano multe e condanne penali per le loro turpi abitudini. Non si potrebbe pensare a qualcosa del genere anche per gli spettatori di J’accuse, da noi L’ufficiale e la spia, il film di Polanski in concorso a Venezia?
Diego Gabutti Già collaboratore delGiornale(di Indro Montanelli), di Sette(Corriere della Sera), e di numerose testate giornalistiche, corsivista e commentatore di Italia Oggi, direttore responsabile della rivista n+1 e, tra i suoi libri: "Un’avventura di Amedeo Bordiga" (Longanesi,1982), "C’era una volta in America, un saggio-intervista-romanzo sul cinema di Sergio Leone" (Rizzoli, 1984, e Milieu, 2015); "Millennium. Da Erik il Rosso al cyberspazio. Avventure filosofiche e letterarie degli ultimi dieci secoli" (Rubbettino, 2003). "Cospiratori e poeti, dalla Comune di Parigi al Maggio'68" (2018 Neri Pozza ed.)