Riprendiamo dal DUBBIO di oggi, 28/08/2019, a pag. 9, con il titolo " 'J'accuse', Polanski racconta il caso Dreyfus e punta il dito contro i suoi accusatori", il commento di Angela Azzaro.
Un fotogramma del film
L’ultimo film di Roman Polanski, "J'accuse. L'ufficiale e la spia" in concorso alla settantaseiesima Mostra del cinema di Venezia non è un film qualsiasi. Non lo è nessun film del regista di "Cul de sac", "Per favore non mordermi sul collo", "Rosemary's baby", "Frantic", "Luna di Fiele". Ma questo non è un film qualsiasi ancora di più. Perché la scelta di raccontare il caso Dreyfus appare non solo l'occasione di ricordare agli smemorarti che cosa sia stato l'antisemitismo in Europa, ma anche per puntare il dito contro la mala giustizia, contro i processi sommari, contro un'opinione pubblica che ama cedere alla logica del capro espiatorio. Insomma questa volta Roman Polanski mette in scena un film storico tratto dal libro di Robert Harris ma parla anche di sé, della caccia alle streghe che ha subito, del processo mediatico che lo perseguita fin dal 1977, quando fu accusato di aver drogato e violentato una minorenne, Samantha Geimer. Le ragioni per cui il film è molto atteso sono tante, ad iniziare dalla curiosità di vedere come il regista abbia ricostruito la Francia di fine Ottocento, quando il capitano alsaziano di origini ebraiche Alfred Dreyfus fu accusato di aver passato informazioni fondamentali alla Germania. II processo fu a dir poco sommario e la condanna pesante per alto tradimento. II Paese si divise, ma in pochi si mossero in sua difesa. Tra questi lo scrittore Emile Zola, fervente innocentista, che il 13 gennaio del 1898 scrisse su "L'Aurora" il celebre "J'accuse...!" rivolto al presidente della Repubblica francese Felix Faure in cui faceva i nomi e i cognomi di coloro che avevano mentito e avevano fatto in modo di far ricadere le colpe sul militare. Zola non fa come il nostro Pier Paolo Pasolini che con il suo scritto "lo so i nomi" asseconda il complottismo degli italiani, sempre pronti a pensare che dietro agli eventi ci sia sempre qualche cosa di losco anche quando si è incapaci di avere le prove. Zola quei nomi li sa eli scrive, pagando anche in prima persona con una condanna per vilipendio delle forze armate. Quando Dreyfus venne riabilitato, lo scrittore era già morto da quattro anni. Ma il suo impegno ancora oggi rappresenta simbolicamente il coraggio di un intellettuale che non si fa conquistare dal sangue, che non cede alle lusinghe del pregiudizio per avere consenso e conquistare un lettore in più o un voto in più.
Roman Polanski
Sul caso Dreyfus pesò moltissimo l'antisemitismo che allora si affermava in tutta la Francia e in Europa con esiti dopo qualche decennio più che drammatici, orribili, disumani. Polanski ne sa qualcosa, visto che i genitori, che con Iui vivevano in Polonia, furono rinchiusi nei campi di sterminio. La madre non fece mai ritorno, il padre sopravvisse e prima di essere catturato riuscì a mettere in salvo il figlio. II mix che mescola Storia e meccanismi sociali - purtroppo – sempre vivi ritorna nel film che ha come personaggio chiave un collega di Dreyfus, anche lui come Zola convinto della sua innocenza e dell'inganno perpetrato nei suoi confronti. Fu infatti Georges Picquart a far riaprire il caso. Anche lui pagò un prezzo molto alto e fu congedato dall'esercito. I ruoli dei due protagonisti sono affidati a due grandi attori, nella parte di Dreyfus c'è Louis Garrel, in quella del collega che lo difende il premio Oscar Jean Dujardin. La realizzazione del film è durata circa sei mesi, ma la sua progettazione coincide molto probabilmente con il periodo più intenso del movimento contro le molestie #metoo, che ha di nuovo puntato il dito contra Roman Polanski. Dal 1977 non può tornare negli Usa e in alcuni Paesi non può andare perché rischia l'estrazione. Nel 2007 infatti, mentre era in Svizzera, fu arrestato e stette in carcere e ai domiciliari per dieci mesi, ma non fu concessa l'estradizione. Di recente Samantha Geimer si è presentata davanti al giudice per chiedere di archiviare il caso. Ha detto: «Ha già pagato abbastanza. Non si può mandare un uomo di 83 anni in galera». Ma per Polanski la questione non è solo non fare la galera. Contro di lui pesa una confessione rilasciata subito dopo le accuse di violenza sessuale. Ora chiedere di rivedere anche quelle carte e la posizione del giudice che allora lo condannò. In attesa di vedere il film la domanda da porsi è come vadano affrontati questi casi così delicati. Da una parte ci sono le accuse, che peraltro la diretta interessata non ha più interesse a portare avanti, dall'altra c'è un'opinione pubblica che si accanisce su Polanski. Quello che si chiede è giustizia o è giustizialismo, soprattutto dopo che sono passati tanti anni da quando si sono verificati i fatti? Ha senso accanirsi sudi lui senza permettergli di difendersi e di rifarsi una vita? Dopo che il movimento #metoo lo ha preso nuovamente di mira Polanski è stato cacciato dall'Accademy, l'associazione di Hollywood che attribuisce gli Oscar. Ma questa volta non è stato a guardare. Ha fatto causa. E forse parlando di Dreyfus vuole anche dire basta al linciaggio contro di lui. Non siamo davanti a un giusto processo, ma a un processo mediatico che dura da più di quaranta anni. Per molti è un appestato, un violentatore, un reietto. Con il suo film nelle sale dal 20 novembre prende la parola. Almeno stiamo a sentire che cosa ha da dire.
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