Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 24/08/2019, a pag.12, con il titolo "Hong Kong è un test della verità per tutti. La democrazia non vive solo in Occidente l'analisi di Bernard-Henri Lévy.
Hong Kong, catena umana lunga 30 miglia
Anche oggi la Stampa è l'unico quotidiano ad affrontare con l'analisi di Bernard-Henri Lévy quanto sta accadendo a Hong Kong. Insieme al Venezuela è la cartina di tornasole della deficienza di democrazia dei paesi democratici e delle istituzioni internazionali, Onu e UE in prima fila.
Bernard-Henri Lévy
È la fine, in primo luogo, del modello «un Paese, due sistemi»; è l'agonia di questo strano regime, previsto dall’accordo sul ritiro firmato nel 1997 tra Gran Bretagna e Cina, che dovrebbe, in linea di principio, durare fino al 2047; è l'ultima crisi, in altre parole, qualunque sia l’esito dello scontro, di questa convivenza innaturale, sotto la stessa bandiera, di una ferrea dittatura e di uno stato di diritto improntato a regole britanniche. Ed è, probabilmente il segno di uno smottamento, vale a dire, letteralmente, di una sconfitta, che potrebbe andare ben oltre i confini della sola Hong Kong; è la punta di un iceberg di lotte sociali che l’immensità cinese, il controllo orwelliano sull'informazione oltre che, come sempre, la nostra prodigiosa capacità di indifferenza, hanno reso quasi invisibile, ma di cui questa rivolta di ombrelli potrebbe essere una specie di avanguardia; e l’evento sarebbe, in tal caso, la scintilla, il fuoco nel barilotto di polvere delle anime, la breccia che una perestrojka aspettava per dilagare nel continente. Dopotutto, è bastato anche meno per fare a pezzi l’Unione Sovietica. Un buco nel muro, una forbice in un filo spinato e un intero regime mondiale svanisce come un castello di carte o un miraggio. Non possiamo esserne certi - eppure -. E se Xi Jinping avesse ragione a temere l’effetto contagio? E se avesse capito molto bene che la rivolta di Hong Kong è il tallone d'Achille del suo progetto imperiale? Ammirevoli per il coraggio Questi manifestanti, ammirevoli per determinazione, coraggio e, con qualche sbavatura, anche per dignità e calma, sono, in terzo luogo, una prova per le democrazie. Sono un test della verità per questa parte del mondo, la nostra, che commemorerà, tra poche settimane, il trentesimo anniversario, non solo di Tiananmen, ma della caduta del muro di Berlino e del terremoto democratico che ne è seguito. Tre decenni dopo chiuderemo gli occhi di fronte a questa replica? Tratteremo queste donne e questi uomini che, per la maggior parte, sono discendenti dei cinesi che sono fuggiti dal continente nel 1949 e quindi hanno sempre vissuto nello stato di diritto, come uno di quei popoli «immaturi» che, come ci viene ripetuto, ogni volta, fino alla nausea, non hanno una «cultura» adatta alla democrazia? E nella lotta a tutto campo contro l’iperpotenza cinese, il cui esito modellerà il mondo del Ventunesimo secolo, terremo fede all'universalità dei nostri principi? Diremo e ribadiremo che Hong Kong offre la prova che si può essere l’erede fedele di una grande civiltà non occidentale e tuttavia credere che la democrazia rimanga, a tutte le latitudini, il meno cattivo dei regimi? Daremo finalmente torto a coloro che ci accusano di preoccuparci solo della libertà dei commerci e del capitale, mai degli uomini in carne e ossa? O, al contrario, ci arrendiamo, ci pieghiamo davanti alla forza e usiamo il destino di un popolo come un piccolo prezzo da pagare per un accordo che ha il profumo dell’acciaio e della soia? La tragedia umana In quarto luogo, è una tragedia umana in tempo reale che, se concluderà il suo corso, avrà conseguenze terribili. Possiamo immaginare cosa sarebbe un’azione di forza contro queste folle la cui antica e disperata gravità stringe il cuore e richiede rispetto? Cosa succederebbe se le decine di carri armati e le truppe che nel momento in cui scrivo stazionano in uno stadio di Shenzhen percorressero i pochi chilometri che le separano dal confine? E qualcuno ha idea del numero di corpi schiacciati, fatti a pezzi, uccisi all’arma bianca, smembrati, scaricati nelle fogne, bruciati, che produrrebbe l’intervento armato in questa Tiananmen gigante, affacciata sul mare, dove non ci sono solo migliaia, o decine di migliaia, ma certe domeniche per strada si trovano centinaia di migliaia di persone, fino a un milione o due? No. Nessuno ne ha idea. Nessuno, né a Pechino né altrove, è in grado di valutare il risultato di questa nuova versione della lotta di David contro Golia. E l’immagine di questa possibile ondata di acciaio e fuoco, la prospettiva di questa carneficina, come un’apocalisse sospesa, gela il sangue. E poi quello che è in gioco a Hong Kong, infine, è il rischio di una crisi economica e finanziaria che potrebbe essere ancora più brutale di quella del 2008. Due cose, infatti, sono cambiate in dieci anni. La Cina è diventata, una volta per tutte, la prima potenza mondiale. E Hong Kong, sebbene il suo contributo al Pil stia diminuendo, rimane più che mai il polmone del Paese, il punto d’incontro con le altre potenze e il collo di bottiglia attraverso il quale scorre ancora il 75% dei capitali. Se il collo di bottiglia si tappa, se il polmone resta senza fiato, se prende fuoco o, semplicemente, si chiude la zona di contatto tra i due mondi ora uniti, nel bene o nel male, in un abbraccio fatale - questo sarebbe, per l'economia globalizzata, l'equivalente di un blackout, di un corto circuito di alta intensità, di uno spasmo. Infarto miocardico orientale. Embolia dell’altra metà del cielo e, all’improvviso, come sangue che si gela. Drammatico effetto farfalla con ricadute, ovunque, di distruzione di posti di lavoro, miseria, fallimenti. È adesso - ed è troppo tardi per deplorarlo: quando la Cina prenderà fuoco, sia che cada in preda alle convulsioni, sia che torni a chiudersi, il mondo tremerà.
Traduzione di Carla Reschia
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