Terrorismo contro l'America: dall'11 settembre a oggi, una storia lunga 20 anni Commenti di Fausto Biloslavo, Guido Olimpio
Testata:Il Giornale - Corriere della Sera Autore: Fausto Biloslavo - Guido Olimpio Titolo: «Lo zampino saudita sull'11 settembre. I terroristi detenuti rompono il silenzio - Dopo El Paso e Dayton, venti stragi sventate in America»
Riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 23/08/2019, a pag.18, con il titolo "Lo zampino saudita sull'11 settembre. I terroristi detenuti rompono il silenzio" il commento di Fausto Biloslavo; dal CORRIERE della SERA, a pag. 12, con il titolo "Dopo El Paso e Dayton, venti stragi sventate in America", il commento di Guido Olimpio.
Ecco gli articoli:
IL GIORNALE - Fausto Biloslavo: "Lo zampino saudita sull'11 settembre. I terroristi detenuti rompono il silenzio"
Fausto Biloslavo
La «mente» dell'11 settembre, Khalid Sheik Mohammed, che ha pianificato l'attacco a New York, dopo averlo proposto a Osama bin Laden, potrebbe collaborare alla causa dei sopravvissuti e dei parenti delle vittime per svelare il coinvolgimento dell'Arabia Saudita. In cambio della sua testimonianza il super terrorista pachistano di Al Qaeda vuole stringere un accordo per evitare la pena di morte. Diciotto anni dopo l'attentato, la causa collettiva contro i sauditi comincia a muovere i primi passi concreti, ma per le 2976 vittime dell'11 settembre non è ancora stata fatta giustizia. Dopo l'eliminazione di Bin Laden nel 2011, con un'operazione dei Navy Seals in Pakistan, i cinque responsabili dell'attacco detenuti a Guantanamo, compreso Mohammed, sono sotto processo di una corte militare, che entrerà nel vivo, forse, il prossimo anno. La mossa dello stratega dell'11 settembre per salvarsi la pelle è emersa a fine luglio nell'ambito di una mega causa avviata in un tribunale di Manhattan, a New York, contro l'Arabia Saudita. Nel 2017 ben 1500 feriti sopravvissuti al crollo delle Torri Gemelle e 850 parenti delle vittime hanno intentato la causa collettiva contro il regno saudita. Nel marzo dello scorso anno il giudice distrettuale, George Daniels, ha respinto il ricorso di Riad per archiviare il caso. Secondo il magistrato ci sono «basi ragionevoli» per portare avanti il processo chiedendo miliardi di dollari di risarcimento ai sauditi. Sopravvissuti e parenti delle vittime sono convinti che «l'Arabia Saudita ha fornito supporto materiale ad Al Qaeda per più di un decennio, fino all'11 settembre 2001». Non solo: il regno «era informato» che la rete del terrore di Bin Laden «intendeva utilizzare il suo appoggio per compiere attentati terroristici negli Stati Uniti». E ancora: «Al Qaeda non sarebbe stata in grado, senza l'aiuto saudita, di concepire, pianificare ed eseguire gli attacchi dell'11 settembre». Il «supporto materiale» sarebbe arrivato attraverso i sostanziosi contributi all'organizzazione terroristica di enti caritatevoli islamici controllati dallo stato. 15 dei 19 dirottatori kamikaze dell'11 settembre erano cittadini sauditi, come Bin Laden. Mohammed, la «mente» dell'attacco, aveva dichiarato nel 2007: «Sono responsabile dell'operazione 11 settembre dalla A alla Z». E aggiunto che era pronto ad affrontare la pena capitale «come un martire». Oltre dieci anni dopo trascorsi a Guantanamo sembra avere cambiato idea. Il suo avvocato ha spiegato che «il motore principale» del ripensamento è «la natura capitale dell'accusa», che prevede il patibolo. «In assenza di una potenziale condanna a morte sarebbe possibile una cooperazione molto più ampia», soprattutto sul coinvolgimento saudita nel complotto sempre negato dalla monarchia del Golfo. Nel 2016 il presidente Barack Obama aveva reso pubbliche, a parte alcuni omissis, 28 pagine secretate del voluminoso rapporto del Congresso sull'attacco all'America, che riguardavano l'Arabia Saudita. Non sono «state trovate prove che collegano il governo saudita o funzionari di alto livello a finanziamenti» diretti ai terroristi dell'11 settembre. Però la Commissione ha pure sottolineato «la probabilità» che Al Qaeda e l'attacco siano stati finanziati da enti caritatevoli sponsorizzati dal Riad. La corte di Manhattan ha autorizzato i legali della causa collettiva di esplorare i legami dei terroristi dell'11 settembre con due personaggi chiave legati al regno. Il caso più imbarazzante riguarda Fahad al-Thumairy, un diplomatico del consolato saudita di Los Angeles nel 2001 e allo stesso tempo «imam» della moschea Re Fahad di Culver City in California. Un luogo di culto noto per la linea estremista e frequentato dal personale del consolato saudita. Fra i fedeli, un anno prima dell'attacco agli Usa, c'erano anche Nawaq Alhamzi e Khalid al-Midhar, due dei futuri kamikaze, che sono precipitati con il volo American Airlines 77 sul Pentagono. L'Fbi ha scoperto che Al Thumairy aveva «immediatamente assegnato qualcuno per occuparsi» dei terroristi. Appena arrivati negli Usa non conoscevano l'inglese e dovevano fare pratica di volo. I due sono stati ospitati in un appartamento affittato dalla moschea dell'imam sospetto. Alhamzi e al-Midhar sono stati aiutati anche da Omar al-Bayoumi, sul libro paga di Ercan, una società legata al ministero della Difesa di Riad, probabilmente per tenere d'occhio i dissidenti della monarchia in California. La stessa società aveva collegamenti con Bin Laden. Al-Bayoumi li ha ospitati a casa sua a San Diego e poi affittato l'appartamento dove sono andati a vivere pagando la caparra. Secondo l'Fbi «può essere un funzionario dell'intelligence saudita». Un altro probabile operativo di Riad che ha aiutato i terroristi è Osama Bassnan. Un personaggio che parlava di Bin Laden «come se fosse Dio». Bassnan «e sua moglie hanno ricevuto appoggio finanziario dall'ambasciatore dell'Arabia Saudita a Washington (nel 2001 nda) e dalla sua consorte», si legge nelle 28 pagine desecretate sull'11 settembre. Ben 74mila dollari versati in un anno di bonifici mensili alla signora Bassnan per un servizio di baby sitter mai svolto realmente. Il diplomatico che staccava gli assegni era nientemeno che il principe Bandar bin Sultan, allora il saudita più potente negli Usa. Adesso l'Fbi dovrà declassificare tre gruppi di documenti, compresi degli interrogatori, conosciuti con il nome in codice «302», che potrebbero confermare le collusioni saudite. I legali della causa collettiva contro il regno puntano anche a fare deporre gli altri quattro terroristi detenuti a Guantanamo coinvolti nell'organizzazione dell'11 settembre. Tutti catturati in Pakistan, assieme a Mohammed, fra il 2002 e 2003. Il saudita Walid bin Attash comandava il campo paramilitare afghano dove sono stati addestrati due dei kamikaze dell'11 settembre. Ramzi bin al-Shibh, yemenita, ha organizzato la parte logistica dell'attacco. Ammar al-Baluchi, nipote di Mohammed, ha avuto un ruolo cruciale inviando 120mila dollari ai dirottatori e organizzando il loro corso di volo negli Stati Uniti. Un altro saudita, Mustafa Ahmad al-Hawsawi, si è occupato delle carte di credito, i contatti e gli abiti dei terroristi. I legali della causa collettiva hanno già raccolto le dichiarazioni di Zacarias Moussaoui che accusano agenti sauditi di avere «consapevolmente e direttamente» aiutato i dirottatori. Il ventesimo dirottatore, che non sarebbe riuscito a salire a bordo degli aerei, sta scontando una condanna all'ergastolo negli Usa. I sauditi lo bollano come «un criminale squilibrato» e non attendibile. Il paradosso è che 18 anni dopo siamo ancora lontani da una sentenza per i responsabili dell'11 settembre. Mohammed e gli altri quattro terroristi di Al Qaeda coinvolti sono alla sbarra a Guantanamo nel cosiddetto «Camp justice». Una corte prefabbricata creata vicino al centro di detenzione. Il tribunale militare presieduto dal colonnello W. Shane Cohen aveva aperto i battenti nel 2012, ma non è ancora entrato nel vivo del processo. La lentezza deriva dai caveat imposti dai militari e dai cavilli degli avvocati difensori. Per non parlare del braccio di ferro legale sugli anni passati dagli imputati nelle prigioni segrete della Cia in giro per il mondo subendo sistemi di interrogatori vicini alla tortura. Il processo dovrebbe entrare nella fase finale il prossimo anno e si auspica una sentenza nel 2021, vent'anni dopo l'attacco all'America.
Corriere della Sera - Guido Olimpio: "Dopo El Paso e Dayton, venti stragi sventate in America"
Guido Olimpio
Per mobilitare gli americani contro il terrorismo avevano creato lo slogan «Se vedi qualcosa, dì qualcosa». Una frase, un atteggiamento, qualsiasi indizio — anche piccolo — poteva e può essere utile per scoprire in tempo chi ha intenzione di fare del male. La stessa regola vale per i killer di massa, quale che sia la loro motivazione. Dopo le stragi a El Paso e Dayton sembra che finalmente l’attenzione dei cittadini sia cresciuta. Nelle ultime settimane, come sottolinea la Cnn, oltre una ventina di individui sono stati fermati o arrestati dalla polizia in quanto potenzialmente pericolosi. Persone che hanno lanciato minacce o assunto atteggiamenti da far ritenere imminente un attacco indiscriminato. E non di rado sono stati scoperti grazie ad una segnalazione di qualcuno che è entrato in contatto con loro. L’ultimo caso in California. La polizia di Long Beach ha bloccato un cuoco di un albergo che era pronto a colpire colleghi e ospiti dell’hotel. All’origine del possibile assalto — per il quale aveva accumulato armi e munizioni in quantità — un movente personale legato al lavoro. Prima di questo episodio sono finiti in manette studenti, xenofobi, simpatizzanti neonazisti, giovani. Con gradazioni di pericolosità diverse. Da chi ha esagerato con una battuta a individui ad un passo da compiere un massacro. L’Fbi, nei suoi report sui mass shooters, ha ribadito che nella grande maggioranza di eventi l’omicida aveva fatto trapelare qualcosa, si era confidato. Lo si è visto anche per il killer di Dayton. Piccole bandierine rosse, quasi sventolate, che vanno «avvistate», interpretate, colte. Ecco perché familiari e amici possono essere le prime sentinelle. L’altro aspetto da seguire è la propaganda. Gli estremisti — e non solo loro — condividono il materiale, le tesi, i video. La premier neozelandese Jacinda Ardern ha espresso preoccupazione perché in Ucraina vendono il «manifesto» dello sparatore responsabile dell’eccidio nelle moschee di Christchurch. Un libro di 84 pagine che diventa fonte di ispirazione. Con un’annotazione da non sottovalutare: la guerra ucraina è una palestra per militanti di estrema destra, una copia di ciò che rappresenta la Siria per i jihadisti. Alcuni Paesi si stanno preparando ad un contrasto vigoroso, altri preferiscono trattare tutto caso per caso.
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