Riprendiamo da AVVENIRE di oggi, 21/08/2019, a pag. 3, il commento "Il sole fuori posto (per via di Auschwitz)" di Gigio Rancilio.
Rancilio mette in primo piano, tra le vittime di Auschwitz, sacerdoti come padre Kolbe, politici e personalità come Edith Stein (deportata e uccisa perché ebrea di nascita ma poi santificata dalla Chiesa). Il risultato è la confusione che non aiuta a capire che Auschwitz fu il campo di sterminio più grande in cui fu realizzata la distruzione fisica degli ebrei europei, nonostante sia stato utilizzato anche per internare e assassinare oppositori al regime nazista. Ma lo scopo di Auschwitz era un altro: l'eliminazione su scala industriale degli ebrei tramite omicidio di massa.
Citare ampiamente, inoltre, il concetto di "banalità del male" introdotto da Hannah Arendt è fuorviante, anche se piace molto a chi, soprattutto in ambienti cattolici, insiste sulla dimensione metafisica e extra-umana del male per evitare di affrontare il tema delle reali responsabilità degli artefici della Shoah, che avrebbero potuto agire in altro modo ma non l'hanno fatto.
Neanche una parola, infine, sui silenzi delittuosi del Vaticano e di Papa Pacelli mentre ogni giorno, per anni, le camere a gas di Auschwitz si riempivano. Il Papa sapeva, era informato da vescovi e cardinali polacchi di quanto avveniva nei campi di stermino, ma non ha detto una parola e non ha mosso un dito. Nel pezzo non se ne fa parola.
Ecco l'articolo:
La strada che porta ad Auschwitz è costeggiata da campi di girasole e poi da boschi. Il sole già caldo del mattino per una volta sembra fuori posto. All'ingresso del Memorial and Museum Auschwitz-Birkenau ci sono già centinaia di persone in coda. A prima vista ti appare una pessima cosa. Pensi: c'è troppa gente, non riuscirò mai a trovare la concentrazione necessaria per una visita così importante. Ma è solo un attimo perché subito dopo capisci che invece è una splendida notizia. In un mondo che sembra dimenticare in fretta le lezioni del passato, fa bene al cuore vedere che così tanti hanno scelto oggi di essere qui. Noi, anche se ci pensavamo da un po', siamo stati convinti da due giovanissimi. Volevano vedere. Volevano capire. Volevano toccare la terra che ha imprigionato e fatto soffrire grandi persone come Liliana Segre, Primo Levi, Edith Stein, padre Massimiliano Kolbe. Con il naso all'insù sotto la bugiarda e terribile scritta "Arbeit Macht Frei" (Il lavoro rende liberi) ci guardiamo l'un l'altro con i cuori che battono forte e un groppo che sale in gola. Mentre la guida spiega, mi ritrovo a ripetete le stesse parole che mi accompagneranno nelle visite ai blocchi, davanti alle foto storiche, alle valigie, alle scarpe e persino alle stampelle dei tanti internati e poi in larghissima parte trucidati: "Eterno riposo dona a loro, Signore...". Per raccontare la storia del grande Giorgio Perlasca che a Budapest salvò ottomila ebrei, il giornalista Enrico Deaglio scelse il titolo "La banalità del bene". Davanti a tutto questo a me viene in mente la lezione di Hannah Arendt su quanto banale possa essere anche il male.
Quello che nasce e si sviluppa sulla paura della gente e che viene alimentato ogni giorno da uomini che confondono l'esibizione della forza e della cattiveria con quella del coraggio. Che escludono invece di accogliere. Gli occhi di un neonato pesantemente denutrito mi guardano da una gigantografia. Nel corridoio, lì accanto, ci sono centinaia di foto segnaletiche di donne e uomini sterminati dai nazisti ad Auschwitz. Lo sguardo cade su quella di un professore i cui occhi sembrano dire: "Non farlo succedere mai più. Non fatelo succedere mai più". A pochi metri c'è il cortile delle esecuzioni e poco più in là i forni crematori. La cella dove mori padre Kolbe è umida, ma mentre le passi davanti emana un calore che sa di umanità e di santità e ti sembra di sentire una voce che ripete: "Non c'è amore più grande che dare la vita per gli altri". Dopo una immersione così forte nel dolore e nell'ingiustizia potresti citare Primo Levi, immenso testimone della tragedia e dell'umanità del popolo ebraico nella feroce e deliberata follia della Shoah, oppure il finale della canzone "Auschwitz" di Guccini (Io chiedo/ quando sarà/ che l'uomo potrà imparare/ a vivere senza ammazzare). Ma è dopo aver camminato anche ad Auschwitz II-Birkenau, dopo aver visitato le baracche di legno dove i prigionieri vivevano in condizioni ancor più disumane che capisci che l'unica frase possibile che devi portarti a casa da una giornata come questa (insieme alla preghiera per i defunti) è quella che ti ha indicato tua figlia. L'hanno messa da qualche anno all'ingresso di un blocco di Auschwitz. E di George Santayana: «Quelli che non ricordano il passato sono destinati a ripeterlo». Mi torna alla mente quello che commentò al proposito qui, su "Avvenire", Gianfranco Ravasi: «Purtroppo la storia conferma la tesi opposta e l'umanità spesso dissolve nell'oblio il passato e si ripresenta implacabile sugli stessi abissi, pronta a precipitarvi. Ecco perché il ricordo diventa fondamentale proprio per il progresso e non tanto per la conservazione. Con l'eredità di sapienza e di insipienza che abbiamo ricevuto dal passato noi possediamo come una fiaccola che dirada l'oscurità incerta del futuro. E invece la smemoratezza contemporanea è convinta che, senza lo scrigno del ricordo, si possa procedere più spediti. In realtà, si avanza in modo frenetico e schizofrenico e si inciampa in equivoci, in abbagli, in spropositi che già erano stati vissuti, identificati e bollati nella storia che sta alle nostre spalle. Ma, in positivo, si perdono anche tutti i valori, le intuizioni, le creazioni che un passato nobile ci ha lasciato come patrimonio. E curioso notare che per la Bibbia "ricordare" è il verbo della fede e della vita e "dimenticare" è il vocabolo dell'apostasia e della morte». Aggiungo, come sottovoce: per questo dovete andare ad Auschwitz e portarci i vostri figli e i vostri nipoti, perché senza la fiamma della consapevolezza siamo come ciechi che camminano ai bordi di un burrone.
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