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Deborah Fait
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Autodafè politico 14-08-03
Tempo fa leggevo un bellissimo articolo di Fiamma Nirenstein in cui l'autrice parlava della sua esperienza di giovane ebrea di sinistra e lo leggevo sorridendo perche' rivivevo la mia vita, le mie esperienze e gli autodafe' che i miei compagni pretendevano da me, ebrea e sionista, per poter essere considerata una "di sinistra" senza macchia.

Erano gli anni Sessanta e io stavo "nascendo" politicamente piu' a sinistra del PCI, protestavo contro la mia borghesissima famiglia, contro il capitalismo, contro tutto il male dell'umanita'. Protestavo perche' avevo vent'anni e si avvicinava il 1968 anche se ancora non lo sapevamo. Ero una ragazzina (all'epoca, a vent'anni, si era ancora ragazzini) piena di ideali, di giustizia e di liberta', come tutti i miei coetanei politicamente impegnati e all'epoca chi era politicamente impegnato doveva essere di sinistra se no era semplicemente un fascista. Non esisteva una via di mezzo.

Un giorno salutai tutti e me ne andai in America per vedere con i miei occhi questo paese del demonio e del capitalismo. Gran brutta parola "capitalismo", vuoi mettere invece il suo contrario, il paradisiaco Co-mu-ni-smo!

Me ne andai, dunque, nel Paese del Capitalismo che, secondo gli insegnamenti di Partito, era il Male dell'umanita' intera. Ero curiosa e il mio innato senso di giustizia mi impediva di demonizzare un intero paese e un intero popolo (che stupidi questi americani!) senza conoscerlo. Mia madre era preoccupata? Piangeva? Non importava! Dovevo andare. Io, a vent'anni, dovevo salvare il mondo dal demonio e le lacrime di mia madre facevano parte del prezzo che la borghesia doveva pagare.

A Boston, culla dell'America colta e borghese, giravo per le strade col naso arricciato nel vedere tutto quel benessere , quella ricchezza, quelle macchinone. Che schifo! Non vedevo ancora i demoni per le strade ma ero sicura che prima o poi si sarebbero rivelati.

Stavo au-pair presso una famiglia di ricchi ebrei, i Jakobson, e li consideravo con disprezzo: la villa in mezzo al bosco, la macchina, la moto, il cane, il gatto. E pensare che c'era gente che moriva di fame! Che schifo!

A Boston conobbi Giovanna Marini, la famosa musicologa, e diventammo amiche, tanto che ancora oggi siamo legate da grande affetto.

Con Giovanna, la sua famiglia e altri amici rigorosamente di sinistra, abbiamo girato il nord America in lungo e in largo cantando a squarciagola le canzoni di protesta del Bella Ciao. E nessuno, in quel Paesaccio capitalista, ci diceva niente se cantavamo Bandiera Rossa o le Otto Ore. Ci guardavano un po' straniti e sorridevano. Che strano!

Giovanna Marini, Ivan Della Mea, Dario Fo, i guru della cultura comunista italiana hanno riempito la mia prima giovinezza ma non mi hanno impedito di pensare che forse quel Paese, gli Stati Uniti d'America, non era proprio cosi' demoniaco e che gli americani non erano proprio cosi' stupidi come volevano farci credere.

Tornai in Italia con le idee un po' confuse quando scoppio' la guerra dei Sei Giorni.

Era il giugno del 1967 e mi precipitai in Israele per dare un aiuto, per solidarieta', per disperazione. Al mio arrivo la guerra lampo era gia' finita con la meravigliosa vittoria di Israele e io rimasi al kibbuz Mishmar Hasharon, vicino a Natanya, per sostituire i giovani, ragazzi e ragazze, che erano ancora richiamati al fronte. Passai in kibbuz il periodo piu' bello della mia vita, imparai a conoscere questo popolo meraviglioso, gli israeliani cosi' bistrattati dai media e dall'opinione pubblica: maleducati, rozzi, cafoni! Certo, erano in guerra dal 1948, veramente anche da prima, e forse avevano avuto poco tempo di leggere Monsignor Della Casa ma erano persone meravigliose, piene di coraggio, dal cuore d'oro, ospitali e, a conoscerli, dolcissime, soprattutto erano soli e abbandonati dal mondo intero. La democrazia israeliana non pagava in un mondo filoarabo e filocomunista.

Andai a fare la guardia sul Golan e dormivamo in sacchi a pelo sotto il cielo stellato. Ho girato tutta Israele in autostop o col camion del kibbuz perche' ogni volta che finivamo di piantare un campo di fiori nella sabbia (e vi assicuro che crescevano!) o di raccogliere i pompelmi in un campo di agrumi, ci portavano in gita premio. Era bellissimo.

Ricordo che non c'era nessuna paura degli arabi dentro Israele, non pensavamo agli attentati anche se c'erano, non vivevamo nella psicosi di oggi. La guerra era finita, basta, chiuso l'argomento. Non era ancora nata l'OLP di Yasser Arafat che in seguito avrebbe terrorizzato gli ebrei, gli israeliani e seminato il terrorismo in Israele e in tutto il mondo occidentale.

Nei campi del kibbuz lavoravano con noi alcuni ebrei yemeniti che ci deliziavano con i loro canti, sicuramente gli stessi che sentiva da piccola Achinoam Nini (Noa) e che hanno formato la sua cultura musicale. Antichi canti millenari di un popolo esiliato e schiavo che aveva ritrovato la Patria e la Liberta' con l'operazione 'Tappeto volante'.

Dopo un anno e mezzo di kibbuz, di Israele, di Amicizia e Solidarieta', ritornai a malincuore in Italia e trovai tutto cambiato.

I miei amici e compagni mi guardavano storto. Un mio compagno sindacalista durante un brindisi per la chiusura di un contratto grido' alzando il bicchiere verso di me: "Un brindisi agli ebrei e peccato che non li hanno ammazzati tutti". Gelo ma nessuna reazione, a parte la mia: mi alzai e me ne andai.

Mentre bevevo il caffe' in un bar, uno sconosciuto rabbioso mi aggredi' guardando il Maghen David che portavo al collo "Non vi vergognate per quello che fate ai palestinesi?!".

Allora capii, capii che per essere accettata da quelle persone "democratiche" e da tutta la societa' comunista italiana dovevo fare autodafe', rinnegare Israele e abbracciare il credo antisemita di tutta la sinistra pro-araba. Sentivo sulla pelle il disprezzo e la pieta' delle mie compagne femministe, capivo di essere isolata, sopportavo le loro battute velenose, il loro considerarmi diversa e il rinascere cosi' tristemente naturale dell'odio antisemita ma non mi sono mai piegata. E dovetti scegliere.

Gli ebrei dovettero scegliere, alcuni rinnegarono Israele per essere considerati "vergini e innocenti"; altri, come me, abbandonarono il partito e l'ideologia della sinistra e si dedicarono alla causa del sionismo e della giustizia. Incomincio' cosi' la nostra persecuzione. Come ebrei eravamo ancora odiati e "sospetti", come sionisti dovevamo per forza essere fascisti e non si contano le offese, le minacce, gli insulti, la rabbia quando andavamo a parlare nelle scuole o nelle universita' a favore di Israele e gli studenti ci guardavano con odio. Tanto odio che dovevamo essere protetti dalla polizia, in Italia, a casa nostra! Ci gridavano ogni tipo di piacevolezze: "Fascisti, assassini" e incominciavano i primi slogan che avrebbero dovuto far pensare ma che al contrario furono accettati incondizionatamente come normali e giusti: "Israele boia, Palestina libera". Poi ne idearono molti altri , ancor piu' razzisti e raffinati.

Per assurdo queste persone "di sinistra" odiavano un paese nato socialista, davano il loro supporto alle dittature fasciste, razziste e teocratiche arabe e offrivano il loro incondizionato amore ai terroristi di Arafat che presto avrebbero insanguinato anche l'Italia.

Inutile parlare, inutile spiegare. Israele, cosi' piccolo e cosi' povero, aveva vinto la guerra, aveva umiliato gli eserciti di cinque paesi arabi e aveva conquistato dei territori. Imperdonabile.

E' stato allora che ho sollevato la testa, piu' in alto che potevo rifiutando ogni tipo di autodafe' politico.

E' stato allora che ho abbracciato incondizionatamente la mia vera identita', ed e' stato allora che ho guardato i miei ex compagni negli occhi sbattendogli orgogliosamente in faccia la realta': "Sono ebrea, sono sionista. E allora?"




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