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Deborah Fait
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Chi sei ? Sono un ebreo di Erez Israel
Prima puntata.



Chi sei? Sono un ebreo di Erez Israel.





"Sono tornata a Casa.

Mio Nonno diceva: "siamo stati deportati da Tito Imperatore ma le nostre radici sono nella Terra di Israele"

Con queste parole incomincia l'intervista concessami da Miriam Bemporad-Bar El, un' italo-israeliana, arrivata a nuoto in Israele nel 1947.Piu' che un'intervista si tratta di un racconto, il tragico racconto della sua alyia'. La lascio parlare, un fiume di parole forse per troppo tempo trattenute.

Affascinata la lascio raccontare e registro.

Miriam vive oggi a Bat Yam, una cittadina sul mare a sud di Tel Aviv. Ha visto tutto, ha vissuto tutto, dalla Shoa' che le ha rubato tutta la famiglia e gli amici, al rifiuto degli inglesi di permettere agli ebrei di raggiungere la Palestina Mandataria, all'emozione quasi delirante della nascita dello Stato di Israele.

Ha visto Erez Israel com' era prima di diventare Israele, ha visto i suoi compagni morire sgozzati dalle bande di arabi che terrorizzavano ebrei e beduini, ha conosciuto i soldati della Brigata Ebraica venuti in Italia con gli alleati per salvare gli ebrei dai nazi-fascisti

"Sulle loro spalline c'era scritto Palestina-Erez Israel".

Dice con orgoglio.



- Come sei arrivata in Israele?



" 22 mesi dopo la fine della guerra, clandestinamente, dalla spiaggia di Metaponto, uscivano due navi , una colma di 800 passeggeri e l'altra, la nostra, di 200. Salimmo tutti, in mare aperto, su una nave che doveva apparire vuota agli inglesi che sorvegliavano il mare per catturarci prima che si arrivasse a casa.

A due a due, di notte, sorvegliavamo dal ponte aspettando che dalla costa della Palestina arrivasse un segnale dai nostri fratelli.

Finalmente Il segnale arrivo' ma non si ripete' e allora, insospettiti , scrutammo tra le nuvole basse di una tempesta in arrivo e vedemmo con orrore le sagome di due incrociatori inglesi.

Ci fermammo di colpo lasciandoli allontanare e avvisando tutti di non fumare e stare in perfetto silenzio.

Non si accorsero di noi.

La nave , spinta dalla tempesta verso la costa, si areno' su uno scoglio. Il comandante ebreo volle immediatamente far scendere i meravigliosi marinai italiani che ci avevano aiutato, anche se questo costituiva un grande pericolo per noi. Tentammo con delle scialuppe ma volarono nella tempesta come fossero di carta, alla fine i fratelli dalla costa mandarono un motoscafo che porto' a riva i marinai che furono subito messi in salvo. Il motoscafo porto' anche un cavo che uni' la nave alla costa. Quanto distavamo? 10/20 metri? di piu'? con quella tempesta anche due metri erano troppi. All'improvviso, come per miracolo, il mare si popolo': ragazzi giovanissimi , 14/ 15 anni, nuotavano intorno alla nave, erano col solo costume, di tanto in tanto salivano sulla nave battendo i denti . Venivano massaggiati, riscaldati alla meglio persino con qualche sorso di liquore che venne fuori da qualche zaino e poi di nuovo giu' in quell'acqua gelida, per aiutarci a nuotare, vestiti, fino alla riva , in una notte di tempesta del febbraio 1947.

"A casa, a casa, venite fratelli" ci dicevano incitandoci a saltare nel buio profondo del mare.

Legai giacca e scarpe allo zaino e lo buttai a mare, mi aggrappai al cavo e cominciai ad avanzare come un camaleonte ma alla fine mi tuffai a causa del male alle mani che si stavano tagliando.

Affondai e tornai immediatamente a galla ma avevo perso il cavo , incominciai a nuotare ma capii che non andavo ne' avanti ne' indietro. Mi tenevo solo a galla, i vestiti pesavano, all'improvviso qualcuno mi afferro' il braccio

"At beseder?" mi chiese una voce "Stai bene?"

Certo che stavo bene , pensai, stavo benone, stavo tornando a casa, ero in mezzo ai fratelli. Chi non starebbe bene in un simile frangente?

Mi condusse al cavo e avanzai verso la riva.

Non chiedermi quanto tempo impiegai, alla fine pero' fui fuori dall'acqua e sentii ancora parole di benvenuto, parole commosse e piene di entusiasmo anche se dette sottovoce, quasi un bisbiglio

"benvenuti fratelli, benvenuti a casa".



-E appena a riva cosa hai visto? Quale sensazione ricordi?



" Per prima cosa cercai lo zaino che conteneva tutto quello che possedevo, non trovandolo, mi incamminai e feci i miei primi passi in Erez Israel.

Gli sterpi e le spine della duna mi ferivano i piedi ma a me sembravano carezze.Questa e' la prima senzazione che ricordo: i rovi che facevano sanguinare i miei piedi e la mia felicita'. Avevo 19 anni, niente mi faceva paura dopo quello che avevo vissuto in italia.



-Ma sapevate dove stavate andando?



Oggi a 56 anni di distanza, ripensando a quei momenti, non posso fare a meno di paragonare il nostro cammino a quello delle formiche , una fila che saliva e una fila che scendeva.

Noi , i nuovi arrivati, salivamo e andavano in discesa quelli che venivano ad aiutarci. Eravamo attenti ad ogni rumore, eravamo avvolti dal buio profondo che precede l'alba, quelli che scendevano verso la riva continuavano a sussurrarci "baruch abba, benvenuto".

Fra loro riconobbi qualcuno, che era stato con me nel Palmach in Italia, ma non c'era il tempo di fermarci.

Un viso conosciuto che scendeva ad aiutare, passandomi accanto, mi sussurro' "sono del kibbuz Givat Brenner" ma non facemmo in tempo a dire altro.

Arrivati in cima alle dune albeggiava e ci guardammo intorno. C'era il nulla, deserto, solo deserto ma, avanzando, all'improvviso, come un fata Morgana, ecco alcune casette bianche dal tetto rosso, c'era solo quello in un mare di sabbia.

Era il kibbuz Nezanim e quando arrivai vidi che era gia' circondato dagli inglesi. Totalmente dimentichi della dichiarazione Balfour e dell'aiuto ricevuto dagli ebrei che, a rischio della vita, li affiancarono nelle battaglie contro i turchi, i soldati britannici ci davano la caccia per riportarci a Cipro.

Scambiai i miei pantaloni bagnati con una ragazza della mia misura, mi procurai un paio di scarpe di due numeri piu' grandi e , a un ordine degli inglesi, passammo al vicino campo militare di Julis.

Continuavo a guardarmi intorno, le casette di Nezanim, il campo inglese e sabbia, solo tanta sabbia.

Prima che gli inglesi se ne accorgessero demmo fuoco ai documenti e allora incominciarono gli interrogatori:

-Chi sei?

-Un ebreo di Erez Israel

-quando sei venuto?

-Non ricordo

-con quale nave?

-Non lo so

-dimmi il tuo nome

-sono un ebreo di Erez Israel.



Ci portarono via con dei camion, portarono via noi nuovi arrivati e i nostri salvatori della spiaggia, tagliuzzammo i teloni per vedere fuori.

Come succede qui la notte cadde di colpo, i nostri salvatori, arrestati con noi, ci avvisavano quando eravamo in vicinanza di un kibbuz e allora tutti cantavamo a squarciagola per far capire che ci stavano portando via. Viaggiammo tutta la notte, guardavo fuori e non vedevo niente, ogni tanto delle luci e qualcuno mi diceva "ecco, quello e' un kibbuz" . Oltre a quelle luci nient'altro, nulla, buio, deserto, buio!

All'alba arrivammo al porto militare di Haifa e, nonostante i giri fatti dagli inglesi per confondere le idee, il tam- tam dei nostri fratelli aveva funzionato e una folla ci aspettava al porto.

Ci festeggiavano, ci gridavano "arrivederci".

Gli inglesi ci portarono in un capannone, ci perquisirono tutto il corpo, anche nelle parti piu' intime, ci spruzzarono di DDT infine ci fecero salire su una nave di prigionieri.

Da la' era impossibile gettarci a nuoto.

Ci misero nella stiva dove passammo la notte smantellando dalle pareti tutto quello che poteva servire per combattere, per rompergli la testa agli inglesi e assistendo uno dei nostri giovanissimi salvatori arrestati con noi , poco piu' di un bambino, che ardeva di febbre e delirava.



-Ma gli ebrei che erano venuti a salvarvi sulla nave si sono fatti prendere con voi?



Certo, sono stati con noi tutto il tempo, sono stati deportati con noi a Cipro dove volevano aiutare anche gli internati ebrei dell'isola.

Eravamo tutti insieme sulla nave dei prigionieri e decidemmo di non lasciare la stiva nemmeno se costretti. Ci procurammo, andando nei gabinetti, degli stracci bagnati strappati dai nostri vestiti: ci avrebbero aiutato a resistere quando ci avessero gettato i lacrimogeni per farci uscire sul ponte.

Gettarono tre lacrimogeni e noi resistemmo grazie ai nostri straccetti umidi.

Poi dissero che se non fossimo usciti gli altri internati che, a Cipro, avevano ricevuto il permesso di andare in Palestina sarebbero stati rimandati al campo di internamento. Allora uscimmo subito e ci condussero ad una zattera che aspettava accanto alla nave e che dovevamo raggiungere scendendo una scaletta ripida.

Improvvisamente ecco il ciack secco di uno schiaffo e un silenzio stranissimo. Impietriti ci voltammo e vedemmo una donna dal tipico aspetto dei reduci dei campi di sterminio. Alta e statuaria, magrissima, ma bolsa, gonfia di fame, mostrava a un soldato il braccio col numero tatuato gridando verso di noi in Yiddish "Voleva farmi cadere! " e in ebraico, con voce roca, continuo' " MAI PIU'!".



Quel "mai piu'!" rimase nelle orecchie di Miriam e dei suoi compagni.

"Mai piu' potranno tormentarci, mai piu' potranno ammazzarci, mai piu' potranno maltrattarci. Appena toccata la sabbia di casa ci avevano riportati via ma saremmo tornati e la', a casa nostra, nessuno ci avrebbe mai piu' fatto del male. La', in Erez Israel."








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