Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 21/07/2019 a pag.17, con il titolo "Greggio,armi e sanzioni. La corsa incendiaria delle grandi potenze" il commento di Bernardo Valli
E' dal 2009 che l'Iran prepara l'arma nucleare
Per semplificare la lettura del testo, sottolineiamo i passi più significativi, sia quelli di sostanziale appoggio all'Iran, sia quelli che disinformano, negando la corsa al nucleare dell'Iran che procedeva fin dalla presidenza Obama. Infine le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, c'erano eccome e vennero trovate dove erano state nascoste. Essendo materiale liquido di enorme potenza, era in contenitori che richiedevano spazi limitati. Per questo la ricerca richiese tempo per rintracciare il nascondiglio.
Bernardo Valli
Le premesse per un nuovo, ampio conflitto in Medio Oriente non mancano. L'Iran è nell'occhio del ciclone. Droni abbattuti nel suo cielo, navi occidentali sequestrate dai Guardiani della rivoluzione nello Stretto di Hormuz, minacce quotidiane di Donald Trump che si alternano a larvate proposte di distensione. Non di pace: di pace non se ne parla. Difficile stabilire chi abbia il primato delle provocazioni. Teheran o le capitali nemiche? Washington? Riad? Gerusalemme? Le guerre civili nella regione sono inarrestabili, sono focolai inestinguibili e micidiali che possono annunciare un esteso incendio imminente. Sono già di per sé confronti armati in cui sono impegnati paesi che non si sono ancora dichiarati la guerra. Nello Yemen si affrontano le milizie houthi sostenute dal regime sciita degli ayatollah e le forze saudite e quindi sunnite. Quest'ultime hanno spesso l'appoggio aereo americano, e sono rifornite in armi, dietro pagamento si intende, da Francia, Italia e Inghilterra. Gli europei non hanno comportamenti solari. La loro ambiguità è evidente: da un lato Francia, Inghilterra e Germania, a differenza degli Stati Uniti, mantengono l'impegno che prevede la limitazione delle ricerche nucleari iraniane e il simultaneo progressivo abbassamento delle sanzioni, e dall'altro forniscono (esclusa la Germania) armi ai sauditi che combattono nello Yemen le milizie sciite sostenute da Teheran. Secondo il Guardian, Londra ha fornito ai sauditi, oltre agli aerei, anche degli addestratori. Di recente avrebbe però sospeso l'impegno o l'avrebbe drasticamente ridotto. Il timore di un confito aperto con l'Iran ha spinto anche gli Emirati arabi uniti a ritirare le truppe impegnate nello Yemen a fianco dei sauditi. L'odor di guerra fa paura. I paesi piccoli non vogliono essere coinvolti. In Siria non si riesce a spegnere del tutto la rissa sanguinosa. L'aviazione israeliana insegue puntualmente le milizie iraniane alleate del regime di Damasco. Non le vuole in prossimità dei suoi confini e non vede di buon occhio Bashar al Assad, il rais alauita imparentato con gli sciiti di Teheran. Assad rivendica tra l'altro le alture siriane del Golan, conquistate nel 1967 dagli israeliani che le hanno annesse di recente con l'approvazione del presidente americano. Il dissidio tra sciiti e sunniti risale alle origini dell'Islam, quando fu decisa la discendenza del Profeta, ma nel presente il confronto tra le due grandi correnti musulmane non è di stampo religioso. L'alimentano interessi politici e petroliferi. Grande paese produttore, in seguito alle sanzioni riattivate e aggravate dagli Stati Uniti, l'Iran ha visto le sue esportazioni precipitare da due milioni e mezzo di barili al giorno a trecentoquarantottomila. Il paese ne risente pesantemente. La Guida suprema, Ali Khamenei, sostiene la linea intransigente, che ha condotto il governo di Teheran ad aumentare il ritmo delle ricerche nucleari in risposta al ripristino e all'appesantimento delle sanzioni. Secondo gli esperti questo non condurrebbe tanto presto a una bomba atomica. Ci vorrebbe almeno un anno per un primo esemplare, e ancora di più per averne un numero sufficiente sul piano militare. E comunque Teheran esclude l'intenzione di voler possedere armi nucleari. C'è persino chi, giudicando insopportabili le sanzioni, vuole trattare al più presto con gli americani senza porre condizioni pesanti. Poter riportare le esportazioni di petrolio a un milione e mezzo di barili al giorno (un milione di meno che nel passato) basterebbe per accendere un dialogo. Donald Trump conta sulle crepe apertesi nel regime, con la speranza che gli siano fatali. Gli Stati Uniti di Trump stringono il laccio al collo degli iraniani, si denuncia a Teheran. Dopo la presidenza distensiva di Barack Obama, la super potenza è ridiventata il Grande Satana. Cinquecento soldati americani sono appena stati assegnati alla Prince Sultan Air Base, in Arabia Saudita, con il compito di dedicarsi al sistema antimissilistico. Un passo verso la guerra o un semplice gesto di Trump per mantenere la tensione e intimidire gli ayatollah? A spingere Trump ad aprire un conflitto con l'Iran sono in particolare il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e il potente principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman. Ma non è detto che, nonostante le ripetute minacce, il presidente americano sia disposto a un'avventura bellica di quella portata. L'Iran degli ayatollah sarebbe un avversario assai più temibile di quello che fu l'Iraq di Saddam Hussein. Vladimir Putin adotta una tattica più sottile e anche più efficace di quella di Trump. La Russia ha rafforzato le sue posizioni in Medio Oriente, dove è ritornata a essere, almeno nella regione, una potenza che conta. In questa crisi Putin è quasi un arbitro. E invece un protagonista Israele, che pur non avendo rapporti diplomatici con l'Arabia Saudita, è un elemento importante del fronte anti iraniano. E questo significa un passo verso l'integrazione, non si sa quanto duratura, dello Stato ebraico nel mondo arabo. La nuova crisi mediorientale ci riporta con la memoria a quelle precedenti. In particolare al 2003, quando fu invaso l'Iraq di Saddam Hussein, accusato di possedere armi di distruzione di massa. Armi che poi risultarono inesistenti. Altrettando infondata, secondo gli esperti e le agenzie incaricate della sorveglianza, è l'accusa rivolta all'Iran di non rispettare i limiti posti nel nucleare dall'accordo del 2015, quando Barack Obama era alla Casa Bianca.
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