La politica di Donald Trump in Medio Oriente
Analisi di Antonio Donno
Benjamin Netanyahu, Donald Trump
La politica di Donald Trump nei confronti del problema mediorientale rappresenta una svolta nella storia dei rapporti degli Stati Uniti con la regione almeno dalla fine della seconda guerra mondiale. Tale svolta si configura in modo chiaro per le scelte nette, discriminanti e unilaterali che Trump ha adottato rinunciando a qualsiasi mediazione a livello internazionale o al coinvolgimento di una controparte regionale del mondo arabo. Il presidente americano è consapevole che la storia delle trattative in cui si è cercato un compromesso tra le parti con la mediazione americana sono state un fallimento e in alcuni casi hanno prodotto una recrudescenza del terrorismo palestinese, come nel caso degli anni che seguirono i fatidici Accordi di Oslo, per fare un solo esempio. L’unica eccezione furono gli accordi diretti, bilaterali tra Egitto e Israele nel 1978, perché in quella circostanza il presidente americano Jimmy Carter, mediatore iniziale, fu scavalcato di fatto, al momento conclusivo, dal decisivo, straordinario accordo tra Sadat e Begin. Da questo punto di vista, l’unico riferimento che può essere avvicinato alle decisioni di Trump fu l’azione di Harry Truman. In occasione della votazione sulla spartizione della Palestina alle Nazioni Unite, il 29 novembre 1947, Truman, scavalcando senza indugi le posizioni contrarie del Dipartimento di Stato, dette ordine al rappresentante americano Warren R. Austin di votare a favore della spartizione. Allo stesso modo, nel 1948, sempre scavalcando la dura opposizione di George Marshall, Segretario di Stato, riconobbe de facto il neonato Stato di Israele.
Le prese di posizione di Truman e quelle di Trump sulla questione mediorientale sono lontane nel tempo, ma dimostrano che il terreno politico del Medio Oriente è storicamente e politicamente così pieno di insidie, falsificazioni e doppiogiochismi (Arafat) che qualsiasi tentativo di mediazione plurilaterale è destinato a fallire. Come ha scritto Henry Kissinger nelle sue memorie, in alcune cruciali circostanze il problema mediorientale va affrontato con decisione, rinunciando alle “intuizioni esoteriche” che possono provenire al presidente dalle più svariate parti dell’Amministrazione americana in carica, come anche dagli interlocutori internazionali coinvolti nella questione. Così, l’atteggiamento del presidente americano, al di là degli aspetti impulsivi del suo carattere, si è costruito sulla base della valutazione che la questione mediorientale deve essere affrontata da Washington in maniera diretta, nella convinzione che solo così possono essere raggiunti risultati la cui utilità è giudicata dall’accettazione da parte della controparte o dal suo rifiuto. In questo secondo caso, la controparte resta bloccata, comunque, dalle decisioni del presidente. Consideriamo ancora una volta le decisioni trumpiane a proposito di Israele. Lo spostamento dell’Ambasciata americana a Gerusalemme, la decisione che Gerusalemme debba essere considerata la capitale indivisibile di Israele, il sostegno senza tentennamenti dell’annessione delle Alture del Golan da parte di Israele e la probabile accettazione dell’eventuale annessione israeliana di parte della West Bank sono azioni unilaterali, fatti concreti che hanno messo la controparte palestinese e i suoi sostenitori in una situazione per la quale il rifiuto è fine a se stesso. Allo stesso modo dev’essere considerato l’atteggiamento rigido nei confronti dell’Iran. L’inasprimento delle sanzioni e il ritiro americano dall’accordo obamiano hanno posto il regime di Teheran in una difficile situazione economica e politica. Nello stesso tempo, i paesi europei, che hanno sostenuto entusiasticamente quell’accordo, sono ora in una fase di stallo sulla questione, dando prova di una debolezza politica che si esprime, tra l’altro, su diverse questioni dell’agenda internazionale. La politica di Trump verso il regime iraniano è così ferma che l’Europa e le stesse Nazioni Unite stentano a trovare un’alternativa plausibile alle posizioni di Washington. Soltanto la Gran Bretagna, dopo l’incidente occorso ad una sua nave nello Stretto di Ormuz per opera dei pasdaran iraniani, ha apertamente condannato Teheran, segno – forse – che Londra potrebbe in qualche modo condividere in futuro l’azione del presidente americano contro l’Iran. Ma tutto dipenderà dagli esiti delle elezioni britanniche.
Antonio Donno