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La Stampa Rassegna Stampa
09.07.2019 Le domande che mancano alla storia strappalacrime di Salim
Le omissioni di Niccolò Zancan

Testata: La Stampa
Data: 09 luglio 2019
Pagina: 3
Autore: Niccolò Zancan
Titolo: «Salim in fuga dall'orrore libico: 'Scampato ai bombardamenti. Arrivo in Italia dopo 5 tentativi'»

Riprendiamo dalla STAMPA del 08/07/2019, a pag.3 con il titolo "Salim in fuga dall'orrore libico: 'Scampato ai bombardamenti. Arrivo in Italia dopo 5 tentativi' " il commento di Niccolò Zancan.

Perché Salim non è andato con la madre in Kenia? Intervistato da Niccolò Zancan, Salim afferma di voler fare l'ingegnere, ma anche in Kenia avrebbe potuto farlo. Queste domande, però, non vengono in mente al giornalista, che preferisce raccontare una storia strappalacrime. Salim, invece di prendere esempio dalla madre che si è rifugiata in Kenia, è fuggito prima in Yemen - dove esiste un feroce guerra civile- poi in Sudan - dove le stragi sono persino peggiori - poi fugge di nuovo e dove va? In Libia, per finire nel commercio clandestino governato dalle Ong "umanitarie". Nel frattempo di è fatto inviare dalla madre in Kenia 1.500 dollari (un mistero comr ci sia riuscito), quando con la stessa somma, se avesse seguito la madre, avrebbe potuto prendere un volo di linea in Kenia e andare dove gli pareva.
Ma Zancan preferisce il racconto strappalascrime, non sente puzza di bruciato.

Ecco l'articolo:

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Niccolò Zancan

«Il mio nome è Salim Karaafe, ho 19 anni. La notte del 2 luglio stavo lavando le auto dei poliziotti libici, così come mi era stato ordinato, quando le bombe sono cadute sul centro di detenzione di Tajoura».
Per le strade di Lampedusa si aggira un ragazzo scheletrico. È ferito a un braccio. Somalo della tribù Aurmalle, sta cercando un telefono per dire a sua madre Alima che è ancora vivo. «Salam Aleikum mamma», dice con la voce seria. E la madre urla da lontanissimo. «Habibi, habibi!» ripete piangendo. Amore, amore.

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Non era più economico (e sicuro) un volo di linea?

Sì, Salim Karaafe è vivo. È in Italia. È in Europa. Il suo sogno è studiare per diventare un ingegnere. Ma adesso, con un sorriso tragico inchiodato sul viso e le braccia piagate, riprende il suo racconto: «Quando le bombe hanno colpito il tetto del centro di detenzione di Tajoura, le schegge sono partite in ogni direzione. Anche io sono stato colpito da lontano. Tutti gridavano. E sentivi pregare. La struttura era distrutta. Poi c'è stata una seconda esplosione più forte. Sono scappato di corsa. Ma non credere… Non è difficile andarsene dal centro di detenzione di Tajoura. È pieno di buchi nella rete. C'era già stato un bombardamento durante i giorni del ramadan. Ma io aspettavo da febbraio. E continuavo ad aspettare perché volevo parlare con l'Unhcr in modo da spiegare cosa mi era successo. La notte delle bombe, però, era impossibile restare. Piuttosto che morire lì, era meglio fare il quinto tentativo per venire in Italia».
Salim Karaafe è uno dei 54 migranti soccorsi dal veliero Alex dalla ong Mediterranea. Gli agenti lo hanno fatto sbarcare alle 2 di domenica mattina, gli hanno preso le impronte nel centro di identificazione di Contrada Imbriacola. Poi, con addosso una maglietta bianca che gli era stata data in dotazione, ha dormito per cinque ore. E ora, dopo aver telefonato a sua madre, vuole cercare una sim card e qualcosa da mangiare. «Perché nel centro di detenzione di Tajoura danno il cibo una sola volta al giorno. Sempre maccheroni!».
Cinque volte in mezzo al Mediterraneo, allora. Cinque tentativi per arrivare in Italia. Ma perché? «Mio padre Adam Alì Karaafe era un commerciante di pecore. È stato ucciso nel novembre 2017 all'età di 52 anni dai soldati di Al-Shabaab. Lo hanno ucciso in nome di Allah, ma non so perché. Perché anche noi siamo musulmani. Però loro controllano il territorio e ti chiedono sempre soldi. Se non paghi, finisci come mio padre».
Per prima cosa Salim Karaafe è scappato in Yemen, dove ha lavorato sei mesi come contadino per ricavare delle essenze dalle radici delle piante. Poi è andato in Sudan, e da lì è passato in Libia. «I miei primi tre tentativi di arrivare in Italia sono stati sempre bloccati dalla guardia costiera. Ci hanno visti in mezzo al mare, ci hanno riportati indietro. La terza volta mi hanno rinchiuso nel centro di detenzione di Beni Walid. Conosci la prigione di Beni Walid? Guarda questi segni sulla braccia e sulla schiena. Ti picchiano con le sbarre di ferro. Anche sui piedi. E mentre ti picchiano, ti danno il telefono per chiamare la tua famiglia. Vogliono i soldi. Altrimenti resti chiuso là dentro. Mia madre ha sentito le urla. E ha mandato i soldi».
Il quarto tentativo è stato il più tragico. «Era febbraio del 2018. Sulla barca di gomma eravamo in 110. Per il panico si è spezzata a metà. La mia fortuna è che so nuotare. Siamo sopravvissuti in tre, io e due sudanesi. Ci siamo attaccati a un pezzo dello scafo per tre giorni. Fino a quando un pescatore libico ci ha tirati a bordo e riportato in Libia. È così che sono finito nel centro di detenzione di Tajoura ad aspettare quelli dell'Unhcr, prima del bombardamento».
Sotto le bombe nel centro di detenzione alla periferia di Tripoli sono morte 53 persone e altre 130 sono rimaste ferite. Il quinto tentativo di attraversare il Mediterraneo di Salim Karaafe è quello che lo ha portato infine a Lampedusa. «Il trafficante ci aspettava a Zawiya. Potevi pagare solo 500 dollari. Ma non se eri somalo. Dai somali pretendeva 1000 dollari. Non so perché. Ho dovuto chiamare mia madre Alima. Adesso lei vive a Nairobi, in Kenya. Ha spedito i soldi su un conto in Sudan. Vanno sempre in Sudan i soldi: non conosco il motivo neanche di questo. Ma i trafficanti sono libici. L'ultimo si faceva chiamare "Rasta"». Ha preparato il gommone con dietro il motore a barra. Siamo saliti a bordo. Lui ha detto: Yalla. Go. Via! E così siamo andati nel mare».
Conosci Matteo Salvini? «No, non ho mai sentito questo nome. È il presidente italiano?». È stato difficile aspettare tutte quelle ore, senza spazio e senza acqua, sulla barca a vela della ong Mediterranea? «Al contrario. È stato un viaggio perfetto. Quando abbiamo capito che non saremmo tornati in Libia, io ho pregato. Voglio ringraziare dal primo all'ultimo membro dell'equipaggio, ogni persona che mi ha portato in salvo».
Salim Karaafe imbocca una stradina in salita. Il paese è deserto. All'ora di pranzo sono tutti in spiaggia a fare il bagno. Gli hanno detto che davanti alla chiesa di Lampedusa forse è possibile trovare una connessione wi-fi. Non ha ancora capito bene dove è arrivato, se su un'isola o un continente. E nemmeno sa cosa troverà qui. Ma conosce perfettamente tutto quello che si è lasciato alle spalle.

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lettere@lastampa.it

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