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Avvenire Rassegna Stampa
04.07.2019 Nei Paesi islamici non c'è alcuna libertà religiosa
Un buon libro recensito con ambiguità da Chiara Zappa

Testata: Avvenire
Data: 04 luglio 2019
Pagina: 22
Autore: Chiara Zappa
Titolo: «Islam e libertà religiosa Pochi segnali oltre la sharia»

Riprendiamo da AVVENIRE di oggi, 04/07/2019, a pag.22, con il titolo "Islam e libertà religiosa Pochi segnali oltre la sharia" la recensione di Chiara Zappa.

Il libro di Fabio Fede e Stefano Testa Bappenheim "La libertà religiosa nei Paesi islamici. Profili comparati", pubblicato da Editoriale Scientifica, chiarisce l'assenza di libertà religiosa nel mondo musulmano, in cui chi osa abbandonare l'islam viene perseguitato, incarcerato e ucciso. Il titolo del libro è dunque fuorviante: sotto l'islam infatti non c'è libertà religiosa. Contribuisce alla confusione la giornalista Chiara Zappa, che nel cappello introduttivo scrive che "Ciò che sappiamo sui Paesi a maggioranza islamica è, in linea di massima, che la libertà religiosa resta una garanzia appesa a un filo, spesso molto fragile". Nell'articolo poi smentisce questa affermazione, elencando le restrizioni e le persecuzioni previste dai codici normativi nei Paesi islamici. La verità è che la libertà non è appesa a un filo, ma proprio non c'è.

Ecco l'articolo:

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La copertina

C’è Asia Bibi, la cristiana pakistana accusata a morte per blasfemia e incarcerata per dieci anni (fino all'assoluzione, ma soltanto per vizi di procedura) e ci sono i Paesi del Golfo Persico, dove tra le sabbie del deserto sorgono a ritmo sostenuto nuove chiese cristiane. Ci sono storie di tolleranza ma anche ordinarie vicende di musulmani che perdono i propri diritti di cittadini nel momento in cui scelgono di convertirsi a un'altra religione. Ciò che sappiamo sui Paesi a maggioranza islamica è, in linea di massima, che la libertà religiosa resta una garanzia appesa a un filo, spesso molto fragile. Ma perché? Se nelle decine di Paesi in cui l'islam è religione di riferimento della vita pubblica l'applicazione di questa "relazione privilegiata" e molto variegata per cause storiche e culturali, resta però un comune denominatore che non può essere ignorato. E cioè il fatto che, negli ordinamenti islamici, prima di ogni formale stabilizzazione politica viene riconosciuta l'esistenza di una "Costituzione originaria" che trascende ogni ambito spazio-temporale e riguarda il destino dell'umanità, ovvero il rapporto dell'uomo con Dio. «Il riconoscimento di questa dimensione trascendente informa, sia sul piano contenutistico sia su quello metodologico, l'attività del giurista islamico». A spiegarlo molto bene sono Fabio Fede e Stefano Testa Bappenheim nel loro "La libertà religiosa nei Paesi islamici. Profili comparati", pubblicato da Editoriale Scientifica (pp. 296, euro 20). Un'analisi rigorosa, da cui emergono non solo l'universalità e la centralità della religione nella vita delle società musulmane ma anche alcune conseguenze legali riguardo alla libertà dei cittadini di scegliere e professare la propria fede. Nella misura in cui per l'islam, nel disegno rivelato di Dio (che si fa automaticamente legge), l'apostasia porta alla dannazione eterna, ne discende che essa venga duramente sanzionata, così come i tentativi di indurre un musulmano 'sulla strada dell'eresia'. Una strada che produce inesorabilmente effetti nell'ambito del diritto: per la giurisprudenza islamica classica «chi si fosse convertito - spiegano gli autori - avrebbe visto il proprio matrimonio venir sciolto, e dopo la morte tutte le sue proprietà sarebbero passate allo Stato, e parimenti non avrebbe potuto ereditare dai suoi parenti musulmani». Assolutamente vincolante, in quest'ottica, è solo la legge religiosa: si spiegano così le riserve espresse e spesso formalizzate dagli Stati musulmani al momento di ratificare i documenti internazionali sui diritti umani, a proposito degli articoli concernenti la libertà di fede. Quest'ultima non viene in linea di principio respinta - anche perché, sulla base di alcuni passi del Corano, il diritto islamico la prevede secondo alcune condizioni definite dalla Sharia - ma limata parola per parola onde evitare il sorgere di conflitti con le singole legislazioni nazionali. D'altra parte, l'importanza dei documenti stilati in seno alle organizzazioni sovranazionali dei Paesi a maggioranza musulmana, come la Dichiarazione universale dei diritti umani nell'Islam del 1981, o la Dichiarazione del Cairo del 1990, è minata dal rimando o dall'esplicita subordinazione alla stessa Sharia. Analizzando la situazione delle singole nazioni, nelle cui Costituzioni l'islam è definito come religione di Stato o ufficiale in 25 casi su 56, il panorama è variegato. Le Carte di Libano e Siria, ad esempio, prevedono libertà religiosa e di culto illimitate anche se, nel caso siriano, il presidente della Repubblica deve essere un musulmano. Il volume si concentra in modo particolare su quattro «Paesi paradigma»: Egitto e Marocco, reduci da recenti cambiamenti costituzionali influenzati dalle Primavere arabe; il gigante sciita iraniano e il Pakistan, esterno all'area mediorientale. In Marocco la Costituzione del 2011 riconosce le radici multiculturali del Paese, citando una pluralità di influssi tra cui quelli ebraici e ribadendo «l'attaccamento del popolo marocchino ai valori d'apertura, moderazione, tolleranza e dialogo».

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Il pifferaio magico dell'islam

Nella pratica, tuttavia, chi lascia l'islam rischia tuttora dai sei mesi ai tre anni di carcere, mentre ammende sono previste per chi cerchi di «far vacillare la fede di un musulmano o di convertirlo» anche «usando a tale scopo istituti scolastici, ospedali, asili od orfanotrofi». In Iran, dove il clima generale per le libertà è notoriamente asfittico, la Carta raccomanda di trattare i non musulmani «in conformità ai principi della giustizia islamica e dell'equità, e di rispettare i loro diritti umani», con l'eccezione tuttavia di chi fosse «coinvolto in cospirazioni o attività contro l'islam e la Repubblica islamica dell'Iran». Anche la libertà d'opinione è limitata dall'«osservanza dei criteri islamici», mentre il codice civile vieta le nozze tra musulmani e cittadini di altre fedi. Cupo il quadro in Pakistan, dove il sistema giudiziario è sdoppiato tra le corti "ordinarie" e quelle che applicano il diritto islamico. Qui il famigerato articolo 295 del codice penale, quello per cui è stata accusata Asia Bibi così come decine di altri cittadini in questi anni, punisce con la pena di morte chi offenda, direttamente o indirettamente, il nome di Maometto. Particolarmente discriminati dalla legge sono i fedeli ahmadi, a cui ad esempio è vietato definire "moschee" i propri luoghi di culto, ma anche propagandare la loro scuola islamica. Pure in Egitto, nonostante i sobbalzi seguiti alla Rivoluzione del 2011, la strada verso ciò che in Europa definiamo "laicità" appare ancora lunga. La Costituzione di cinque anni fa ribadisce che «i principi della Sharia sono la fonte principale della legislazione» e riconosce come minoranze religiose soltanto ebrei e cristiani. Non solo. L'intero diritto egiziano è permeato dal principio dell'ordine pubblico, strettamente collegato alle norme islamiche: è dunque possibile intentare causa a chi le avesse violate. Chi si converte non può sposarsi o ricevere eredità, visto che - ha stabilito la Cassazione - l'abbandono dell'islam «è in un certo senso equivalente alla morte». E rischia di venire sanzionato per reati penali quali il turbamento dell'unità nazionale o della pace sociale. L'impressione, leggendo queste pagine, è, pur nel rispetto della concezione esistenziale del mondo islamico, che esso sia chiamato a fare un passaggio irrinunciabile, che lo porti a contemplare, culturalmente prima ancora che giuridicamente, l'esistenza di altri sguardi, ugualmente degni di rispetto. E non fatalmente inferiori, dunque sempre a rischio di essere stigmatizzati, emarginati, sanzionati, persino perseguitati.

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