L'antisemita Heidegger secondo Theodor W. Adorno: dedicato ai suoi ammiratori italiani
A cura di Diego Gabutti
A destra: Theodor W. Adorno
In Italia, Heidegger è stato diffuso in Italia da Gianni Vattimo, sul cui odio per Israele invitiamo i lettori di IC a fare una ricerca nei nostri archivi, scrivendo il suo nome in home page, colonna a destra in alto. Sodale in questa diffusione è Donatella Di Cesare, la non dimenticata vice presidente della Fondazione tedesca - creata per onorare la memoria di Heidegger - che ha cancellato dal suo curriculum ogni traccia di quel suo impegno.
Per approfondire: http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=11&sez=120&id=71811
Gianni Vattimo, Donatella Di Cesare
Th.W. Adorno (da Il gergo dell’autenticità, Bollati Boringhieri 2016)
Pericolo del pensiero sarebbe, a detta di Heidegger, il filosofare. Il pensatore autentico, diffidente di una cosa così moderna come la filosofia, scrive: «Quando nell’estate incipiente fioriscono i narcisi isolati nascosti nel prato e la rosa alpina risplende sotto l’acero (...)» oppure: «Quando sui clivi dell’alta valle, su cui passano lente le mandrie, si ode uno scampanio dopo l’altro (...)». E ancora: «Si stendono i boschi | precipitano i ruscelli | le rocce durano nel tempo | la pioggia scroscia | i campi sono in attesa | sgorgano le sorgenti | dimorano i venti | la benedizione si sofferma pensosa.» Il rinnovamento del pensiero per mezzo di un linguaggio obsoleto si conforma a quest’ultimo. L’ideale espresso è l’arcaico: «Ciò che vi è di più antico tra le cose antiche giunge al nostro pensiero da dietro e tuttavia ci viene incontro.» (…) Nel Reich di Hitler, Heidegger ha rifiutato, il che si può comprendere, una cattedra a Berlino. Egli giustificò questo rifiuto nell’articolo Perché restiamo in provincia? Con abile strategia egli indebolisce il rimprovero di provincialismo, conferendogli un significato positivo. In questi termini: «Quando in una notte fonda d’inverno una tempesta di neve infuria con i suoi colpi attorno alla baita e tutto copre e nasconde, allora il tempo è maturo per la filosofia.»
Heidegger e Hitler in una caricatura, quanto mai reale
Heidegger presuppone l’esistenza di un’armonia prestabilita tra il «contenuto essenziale» e il parlottio che rammenta la terra natia. Perciò i toni alla Jungnickel [un esponente del Kitsch tedesco] non sono amabili debolezze. Essi devono sopraffare il sospetto che il filosofo possa essere un intellettuale: «E il lavoro filosofico non si svolge come una occupazione singolare di una persona eccentrica. Esso appartiene in pieno al lavoro dei contadini.» Si desidererebbe conoscere perlomeno la loro opinione in merito. Heidegger non ne ha bisogno. Infatti, egli siede «con i contadini sulla panca accanto alla stufa durante la pausa serale del lavoro (...) oppure al tavolo nell’angolo del crocifisso e lì noi parliamo appena. Fumiamo silenziosi le nostre pipe (...) L’appartenenza intima del proprio lavoro alla Selva Nera e ai suoi uomini si basa su un insostituibile radicamento secolare nel suolo alemanno-svevo». (…) Il radicamento nel suolo si pavoneggia: «Da poco mi è stata offerta una cattedra a Berlino per la seconda volta. In una tale circostanza lascio la città e mi ritiro nella baita. Ascolto ciò che dicono le montagne, i boschi e le fattorie. Nel frattempo arrivo dal mio vecchio amico, un contadino settantacinquenne. Nel giornale ha letto che sono stato chiamato a Berlino. Cosa ne dirà? Egli poggia lentamente lo sguardo sicuro dei suoi chiari occhi sui miei, tiene la bocca rigidamente chiusa, poggia la sua mano fedele e prudente sulla mia spalla e scuote il capo in modo appena percettibile. Questo significa: inflessibilmente no!» Sia la descrizione del vecchio contadino, che l’elogio di quel mutismo riscontrato dal filosofo non solo nei suoi contadini ma anche in se stesso, ricordano i cliché più stinti dello strapaese.
I contributi apportati alla conoscenza del mondo contadino da una letteratura che non fa coro agli istinti ammuffiti del Kitsch tedesco piccolo borghese – in modo particolare quelli del realismo francese dal tardo Balzac sino a Maupassant – vengono ignorati, quantunque accessibili in traduzione anche a un presocratico. I piccoli contadini devono la loro sopravvivenza soltanto ai liberi doni di quella società dello scambio, alla quale le loro proprietà terriere riescono a sottrarsi solo in apparenza; rispetto allo scambio i contadini hanno di meglio solo una cosa ancora peggiore, lo sfruttamento immediato della famiglia, senza il quale farebbero bancarotta (…). I mestieri stabili, che sono anch’essi una fase dello sviluppo sociale, vengono usati normativamente da Heidegger ancora nel 1956 in nome di una falsa eternità dei rapporti agrari: «L’uomo tenta invano con il suo pianificare di dare un ordine al pianeta, se egli non è integrato nella parola che il sentiero di campagna gli rivolge.» (…) La filosofia che disdegna di essere tale, per sottolineare la propria diversità altrimenti inesistente rispetto alla filosofia stessa, ha bisogno a prova della sua originarietà di questo simbolo contadino di sesta mano. (Ma) il rapporto Kogon, secondo cui le peggiori atrocità nei campi di concentramento sono state compiute dai figli minori dei contadini, condanna ogni discorso sullo stare al sicuro; i rapporti agrari, che costituiscono il suo modello, spingono i figli diseredati nella barbarie. Heidegger si appropria persino del concetto di distruzione, penalizzato nei gradi inferiori, con le sue funeste implicazioni di angoscia, cura e morte. Ma come quei pupazzi che stanno sempre in piedi, il positivo ogni volta si rialza. Il pericolo, il rischio, il porsi-in-gioco e tutti i brividi relativi non sono da prendere sul serio; già a una donna della cerchia dei protoautentici, che allora disse che nei reconditi dell’inferno di Dostoevskij risplende di nuovo la luce della redenzione, fu risposto che in questo caso l’inferno assomiglierebbe ad un breve tunnel ferroviario. Gli autentici più in vista parlano malvolentieri della redenzione, come del resto anche il signor parroco; preferiscono mietere sulla terra bruciata. Essi non sono meno furbi di quella psicologia sociale che osservava che i giudizi negativi, qualunque sia il loro contenuto, hanno migliori prospettive di conferma rispetto a quelli positivi. Il nichilismo diventa una farsa, un mero metodo, come una volta era già avvenuto per il dubbio cartesiano. L’ideologia fascista dovette rimuovere dalla coscienza il sacrificio annunciato in favore del predominio tedesco, perché la chance di ottenere ciò per cui veniva richiesto era sin dall’inizio troppo piccola per reggere una tale consapevolezza. «Il sacrificio ci renderà liberi», scrisse un funzionario nazionalsocialista nel 1938, modificando polemicamente uno slogan socialdemocratico. Heidegger è d’accordo. Ancora nell’ottava edizione di Che cosa è la metafisica? – apparsa nel 1960 – egli ha mantenuto, senza attenuarne opportunisticamente i toni, le seguenti proposizioni: «Il sacrificio è il prodigarsi dell’uomo nella salvaguardia della verità dell’Essere per l'essente, prodigarsi che è sottratto ad ogni costrizione, perché sorge dall’abisso della libertà. Nel sacrificio avviene quella segreta gratitudine che, sola, consente di apprezzare la gratuità con cui l’Essere nel pensiero si è consegnato all’essenza dell’uomo.»
Diego Gabutti
Già collaboratore del Giornale (di Indro Montanelli), diSette (Corriere della Sera), e di numerose testate giornalistiche, corsivista e commentatore di Italia Oggi, direttore responsabile della rivista n+1 e, tra i suoi libri: Un’avventura di Amadeo Bordiga (Longanesi,1982), C’era una volta in America, un saggio-intervista-romanzo sul cinema di Sergio Leone (Rizzoli, 1984, e Milieu, 2015); Millennium. Da Erik il Rosso al cyberspazio. Avventure filosofiche e letterarie degli ultimi dieci secoli (Rubbettino, 2003). Cospiratori e poeti, dalla Comune di Parigi al Maggio'68" (2018 Neri Pozza ed.)