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La Stampa Rassegna Stampa
22.06.2019 Terrorismo iraniano: come sconfiggerlo secondo Trump e Shirin Ebadi
Paolo Mastrolilli da NY, Marta Dassù intervista la Premio Nobel esule in Usa

Testata: La Stampa
Data: 22 giugno 2019
Pagina: 11
Autore: Paolo Mastrolilli-Marta Dassù
Titolo: «Washington vuole sfiancare il regime: l'obiettivo è una nuova intesa sul nucleare-La Nobel Ebadi: a Khamenei serve un nemico»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 22/06/2019, a pag.11, due servizi di Paolo Mastrolilli e Marta Dassù su Usa-Iran, preceduti da un nostro commento

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La notizia del giorno, ripresa da tutti i media, è il mancato attacco Usa all'Iran. Francamente non capiamo tanto stupore, è la linea politica di Trump, che prima di essere presidente Usa è, e continua a essere, un imprenditore. Ciò che gli interessa è il risultato, un modo di ragionare che quasi nessun politico capirà mai. Con Obama il terrorismo islamico è cresciuto in tutto il mondo, come le guerre, con Trump avviene l'opposto, meno guerre e indebolimento degli stati canaglia, come Iran e Qatar.
Trump non ha nessuna qualità che ottenga la condivisione delle varie  intellinghenzie, non è un intellettuale,è privo di qualsiasi fascino fisico, il suo modo di parlare in pubblico è spesso comico, non parliamo poi della sua pettinatura, insomma è antipatico. Ma è questa la virtù che conta in un politico?

Paolo Mastrolilli: "Washington vuole sfiancare il regime: l'obiettivo è una nuova intesa sul nucleare"

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Paolo Mastrolilli

Trump ha detto che ha fermato l'attacco all'Iran perché avrebbe fatto almeno 150 morti, e quindi sarebbe stato una risposta sproporzionata all'abbattimento di un drone senza pilota. È possibile che ciò lo abbia spinto ad agire così nei minuti finali del raid, ma la sua scelta è stata sostenuta anche da motivazioni di lungo termine che non gli hanno fatto ritenere necessario il bombardamento, e possono essere riassunte in tre punti: primo, lui ha sempre affermato di non volere un'altra guerra in Medio Oriente; secondo, l'obiettivo dichiarato della «massima pressione» applicata a Teheran è costringere gli ayatollah a rinegoziare un accordo complessivo migliore di quello firmato da Obama; terzo, le sanzioni stanno funzionando, il regime è al collasso, e quindi Washington può permettersi di aspettare la resa della Repubblica islamica, senza prendere iniziative belliche che potrebbero provocare un conflitto allargato, danneggiando tanto l'immagine, quanto gli interessi degli Stati Uniti. L'interpretazione più critica della decisione di Trump è che l'attacco sia stato solo un bluff. Il capo della Casa Bianca lo ha minacciato, secondo alcuni inviando un messaggio a Teheran attraverso l'Oman, con cui diceva che non voleva la guerra, ma nuove trattative. Quando ha capito che non aveva funzionato, perché gli iraniani hanno risposto che solo l'ayatollah Khamenei avrebbe potuto riaprire il dialogo, e non era incline a farlo, il presidente ha fermato un raid che in realtà non voleva lanciare. Il sospetto è plausibile, perché questa in fondo è una strategia simile a quella già adottata con la Corea del Nord e il Venezuela, dove alle minacce belliche non sono seguiti i fatti. Ciò ha urtato anche alcuni repubblicani, come la figlia di Dick Cheney, che ha criticato il presidente perché si sta comportando come Obama con la Siria, e lasciare le provocazioni senza risposta indebolisce gli Usa e concede spazio agli avversari. Una seconda interpretazione, però, si può ricondurre al dibattito avvenuto nella «situation room» della Casa Bianca giovedì sera. Il consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton, noto per aver sempre sostenuto la linea del cambio di regime a Teheran, ha sollecitato l'intervento. Il segretario di Stato Pompeo lo ha appoggiato, ma nello stesso tempo ha fatto notare che la «massima pressione» sta funzionando e l'economia iraniana è in ginocchio. Quindi le provocazioni degli ayatollah sono un segnale di debolezza, inviato soprattutto agli europei, i russi e i cinesi, affinché facciano di più per contenere l'aggressività americana e salvare il salvabile del'accordo nucleare Jcpoa. In questo modo Pompeo ha messo una pulce nell'orecchio di Trump, facendolo riflettere sul fatto che in fondo non aveva bisogno di accelerare la crisi con un'azione militare, che poneva il rischio di provocare un conflitto regionale, e forse alla fine avrebbe fatto più gli interessi degli iraniani, che non quelli degli americani. In altre parole Teheran è sull'orlo della disperazione, non Washington. Il veicolo speciale degli europei per continuare a commerciare con la Repubblica islamica non è decollato, così come il sistema di pagamento Instex, perché le banche e le aziende occidentali non vogliono incorrere nelle multe americane, al punto che ieri la Russia si è offerta di supplire per aiutare le esportazioni di petrolio. Il malcontento sociale cresce, e quindi gli ayatollah stanno cercando di accelerare la crisi, perché non sono più sicuri di poter resistere fino alla fine della presidenza Trump. In queste conr3 capo della Casa Bianca non aveva interesse a cambiare la tendenza a lui favorevole, rischiando una guerra o rappresaglie terroristiche, solo per vendicare l'abbattimento di un drone. Ora si tratta di vedere se da entrambe le parti ci sarà l'intelligenza e la convenienza di cercare un «off-ramp», come ha segnalato l'Iran convocando l'ambasciatore svizzero che rappresenta gli Usa a Teheran, oppure se l'abbrivio verso lo scontro è inevitabile.

Marta Dassù: "La Nobel Ebadi: a Khamenei serve un nemico"
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Shirin Ebadi, Premio Nobel      Marta Dassù

Shirin Ebadi è una profonda conoscitrice dell'Iran, in più una donna fortunata, a differenza di tante altre donne iraniane che hanno perduto oltre la libertà spesso anche la vita, è riuscita a fuggire negli Usa, è avvocato e non perde occasione per testimoniare quel che avviene nel paese degli ayatollah. In questa intervista milanese, oltre a esprimere opinioni condivisibili, illustra il pensiero occidentale in tutte le sue debolezze. Per esempio è contraria alle sanzioni volute da Trump, che invece stanno indebolendo il regime, l'unica soluzione, essendoci in alternativa soltanto la guerra, che causerebbe un numero enorme di vittime. Una preoccupazione che non tocca l'Iran, non va dimenticato il conflitto con l'Iraq di Saddam Hussein, dove Teheran mandò a morire anche i minorenni.
Ha ragione quando ricorda che l'errore più grande avvenne nel 1979 con l'arrivo della dittatura di Khomeini, ma va ricordato che fu la Francia a ospitarlo in attesa che si impadronisse del potere cacciando lo Scià. Nessuna democrazia mosse un dito per impedirlo. La storia si ripete oggi a 40 anni di distanza, il mercato iraniano fa gola agli imprenditori occidentali, che di fatto si schierano a difesa de regime di Teheran. Tranne Trump. Se gli iraniani riusciranno a liberarsi dal regime che li opprime sanno chi dover ringraziare.

Nel suo ultimo libro, «Finché non saremo liberi» (2016), Shirin Ebadi, avvocato e prima donna musulmana a ricevere il premio Nobel per la pace, scrive che l'odio per l'America è la base su cui è stata costruita la rivoluzione islamica. I giovani iraniani non sono affatto anti-americani. Ma la gerarchia religiosa e politica utilizza il nemico esterno per reprimere il dissenso interno. Per questo una pacificazione è quasi impossibile. Ebadi è a Milano al Festival del lavoro. «Certo, la possibilità di un conflitto esiste - dice -. Ma nessuna delle due parti lo vuole veramente. E il popolo è fra due fuochi, il regime iraniano e il presidente Usa. Se ci fosse una guerra sarebbe una tragedia, anche perché si allargherebbe alla regione». «Il nucleare - aggiunge il premio Nobel - è un falso problema. Il problema vero, dal punto di vista americano, è il ruolo dell'Iran nella regione, con l'appoggio a Hezbollah, la rivalità con l'Arabia Saudita e i rischi perla sicurezza di Israele. La religione, nel conflitto fra sciiti e sunniti, c'entra pochissimo. Conta il potere, contano gli interessi geopolitici». L'avvocato Ebadi ha una linea di ragionamento molto chiara: le pressioni esterne servono a poco, fanno il gioco dei falchi iraniani: « Un cambiamento del regime, cui i giovani iraniani sarebbero quanto mai favorevoli, può venire solo dall'interno. L'embargo economico non serve, sono sempre stata contraria. Sta riducendo il mio paese in estrema povertà, mentre il potere clericale e militare iraniano vive in modo corrotto su una sorta di economia di guerra. La spinta politica interna potrebbe avvenire con un referendum, che ho chiesto più volte ma senza alcun risultato. La società iraniana non è pronta a una fase di scontri violenti. Vorrebbe una evoluzione pacifica, un po' come è avvenuto in Sud Africa. Ma per ora non è stato ottenuto niente, neanche dai presidenti che credevamo moderati. La verità, infatti, è che il potere resta concentrato nelle mani della Guida suprema». Questa donna minuta, di grande carattere, ha la forza di guardare in faccia la realtà. «Se le cose non cambieranno, entro un paio d'anni l'Iran sarà in una situazione peggiore del Venezuela». «L'errore drammatico - conclude - è stato fatto nel 1979. Sono 40 anni che mi batto per rimediare a una scelta fatale»

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