Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 20/06/2019, a pag. 31, con il titolo "Sono io la spia venuta da Israele", l'intervista di Giancarlo De Cataldo a Dov Alfon.
Giancarlo De Cataldo
Parigi, aeroporto Charles De Gaulle. Yaniv, giovane israeliano in vacanza, letteralmente svanisce sotto gli occhi di decine di persone. Rapimento? Forse. Unico indizio: qualcuno segnala una misteriosa ragazza bionda. Mentre la Sureté non sa dove mettere le mani, scende in campo una formidabile coppia di agenti segreti di Tel Aviv. Il colonnello Zeev Abadi, bruno, distinto, gentile, una notevole somiglianza con George Clooney, e la sua assistente Oriana, giovanissima e tostissima "operativa" dell’Unità 8200. Con Sarà una lunga notte fa la sua prepotente irruzione nel mondo della spy-story Dov Alfon, 58 anni, ex agente segreto, già caporedattore del quotidiano progressista Haaretz e della casa editrice Kinneret-Zmora, autore di uno dei più serrati, adrenalici thriller degli ultimi tempi: non a caso, in procinto di diventare, grazie ai produttori di Prigioniero di guerra , cioè l’originale israeliano di Homeland , la prossima serie israeliana di culto. Dov Alfon ha accettato di rispondere alla nostre domande via mail da Parigi, dove ora vive.
Dov Alfon
Ma esiste davvero questa Unità 8200, monsieur Alfon? «Altroché! Io stesso ne ho fatto parte in passato. È un organismo segreto, molto potente, forse il miglior servizio di raccolta dati al mondo. Immaginate una banda di ragazzini di diciott’anni che vi seguono passo passo, leggono e ascoltano le vostre più intime conversazioni da migliaia di chilometri di distanza e lo fanno senza lasciare nessuna traccia. Arafat sostiene di non saperne nulla del sequestro dell’Achille Lauro? 8200 lo smentisce divulgando le sue intercettazioni. Il bombardamento del sospetto reattore atomico siriano del 2007? Il baco informatico che nel 2010 distrugge le centrifughe nucleari in Iran? Beh, questa è tutta opera dell’Unità 8200».
La copertina (DeA Planeta ed.)
E quindi il colonnello Abadi è un po’ il suo ritratto. «C’è qualcosa di mio, in effetti. Sono nato, come lui, in Tunisia, i miei genitori erano ebrei francesi. Già a sei mesi ero in Francia, e poi a undici, dopo una brutta storia di antisemitismo sul posto di lavoro, mio padre ci spostò in Israele. Ignoravo tutto di quel Paese, a partire dalla lingua. Non le dico mia nonna: italiana, di Livorno, già la Francia le sembrava una deportazione! Come me, Zeev Abadi è figlio di più culture, un po’ uno sradicato, e nello stesso tempo un cittadino del mondo, pacato, riflessivo, equilibrato, scettico. Oriana, invece, è un’israeliana al cento per cento: giovane, coraggiosa, patriottica, avvenente e completamente priva di scrupoli. Esprimono due diverse visioni del mondo. Siamo in Israele oggi, dopo tutto».
Ecco. Parliamone. Perché al di là del plot, questo è un romanzo sul tema della sicurezza: è un’ossessione in Israele? «Noi diamo un’importanza eccezionale alla sicurezza, spendendoci tanto a scapito di altri settori, dall’istruzione al sociale».
Una preoccupazione reale o una scusa per non fare la pace coi vicini? «La sicurezza è un problema reale, perché si può essere attaccati da fuori o da qualcuno che si fa esplodere in casa tua. Il guaio è che troppi politici la usano per le tangenti o per la corruzione, nel senso di dire "ma scusate, col nemico che ci minaccia andate a pensare ai sigari gratis o ai contratti di appalto che favoriscono il mio alleato?". Negli ultimi dieci anni l’interesse principale di tanti politici israeliani è stato arricchirsi con le tangenti, dirette o indirette».
Sino a che punto è disposto a spingersi Israele per la sicurezza? «Lontanissimo. Lo racconto in questo libro. Non stiamo parlando tanto di un dogma, quanto di una religione. Come disse John Le Carré, "i servizi segreti sono la sola reale espressione dell’inconscio di un Paese"».
E lei che ne pensa? «Quando mi relegarono in un avamposto sperduto, a diciannove anni, lessi Il giorno della civetta di Sciascia, e rimasi profondamente colpito quando i superiori fermano il coraggioso protagonista dicendogli "quando fai un’indagine non puoi affidarti all’immaginazione", e lui risponde: "ma la Sicilia è un luogo immaginario, se ci vivi come fai a non usare l’immaginazione"? Ecco, per me Israele è una luogo fantastico, immaginario. Per intenderci: credo fermamente che la pace coi palestinesi sia possibile, ma non credo che risolverà tutti i problemi».
Perché continuerete a sentirvi sotto assedio? «Oggi siamo dentro una guerra civile a bassa intensità che combattono le diverse componenti della società, i laici, gli ortodossi, gli arabi, gli immigrati russi. Un vero leader lavorerebbe per la concordia, e invece i populisti hanno bisogno di queste lacerazioni per sopravvivere. Posso citare ancora una volta Sciascia? "La sicurezza del potere si fonda sull’insicurezza dei cittadini"».
Torniamo al romanzo. Se ne farà una serie. Ma come fate in Israele a produrre serie così universali? «Perché quando ci mettiamo siamo i migliori, specie con le cose nuove. D’altronde una volta fondavamo kibbutz, ora scriviamo Fauda ... » (una serie tv Netflix, ndr ).
Al di là della nonna livornese, ha un legame con l’Italia? «Questo romanzo è stato scritto quasi per intero a Roma, dove ho vissuto per due anni. E sa che verso la fine mia nonna parlava solo italiano? C’è una frase che ricordo, gliela scrivo: si dice sempre il lupo più grande che non è».
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