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Lo shtetl secondo Ben Ami
Ben Ami (in ebraico “figlio del mio popolo”), pseudonimo di Mordechaj Rabinovič, pubblicò “Il cantore della sinagoga” (“Baal-tefilo”, nel titolo originale) per la prima volta nel 1887 sulla rivista russo-ebraica “Voschod”, edito in italiano nel 1998 da La Giuntina. Ben Ami fu un precursore del sionismo, ma nella sua forma spirituale. L’identità ebraica, le tradizioni antiche, il mondo dello shtetl, il timore di un’assimilazione russa oppressiva: tutto questo fa di lui un autore per certi aspetti scomodo e controcorrente. La lingua in cui scrive – il russo, la lingua dei goym – è essa stessa una scelta coraggiosa, proprio per affermare a chiare lettere, contro i suoi antagonisti, che la cosiddetta “emancipazione” altro non era che un suicidio nazionale. Ma, nel suo libro, Ben Ami non descrive soltanto la vita dello shtetl, con i suoi ritmi lenti e scanditi da una fede millenaria, ma anche l’impatto che l’arte e la musica potevano avere su quel mondo arcaico. I protagonisti – il vecchio reb Avner, povero cantore di provincia, e un bimbo tredicenne, proiezione dello stesso scrittore – scoprono all’improvviso la bellezza travolgente di una musica “profana”, lo sconvolgimento procurato da una passione che rischia di allontanare da Dio, unico e insostituibile legame che l’uomo deve avere.
La complessità psicologica del racconto, condotta attraverso i sentimenti contrastanti del vecchio e del bambino – il primo, consapevole del rischio del peccato; il secondo, sedotto intuitivamente da una bellezza mai vista o ascoltata prima – si snoda non per condannare, ma per far comprendere che, dietro la bellezza incomparabile della musica, vi è sempre Dio. La tristezza silenziosa di reb Avner – “Non posso scordare la voce che abbiamo sentito ieri. Mi è proprio entrata nella testa, nel cuore; quei suoni continuano a vorticare intorno a me e non capisco perché mi facciano sentire un simile dolore in fondo all’anima” – e la sua voce che, nel canto, “dipingeva” le parole, adattando il coro dei monaci con cui cominciava il quinto atto di “Roberto il diavolo” alla nota preghiera kevakuras, mentre la melodia intima e profonda della “Casta Diva” della “Norma” continuava ad aleggiare nella sua mente, tutto ciò avrebbe prodotto nel vecchio cantore una morbosa ossessione che lo avrebbe portato alla morte. Il dilemma che Ben Ami delinea nel suo racconto è, in fondo, lo stesso dilemma di un ebraismo che rischia di perdere la sua identità, attratto dal canto delle sirene dell’emancipazione. Non offre soluzione Ben Ami, ma si limita a descrivere i contrasti di un mondo che rischia di scomparire per sempre, appiattito dal compromesso con la modernità e con la speranza di essere accettato dagli “altri”, dai goym. Molto letto ai suoi tempi, Ben Ami sarebbe stato, però, presto dimenticato a causa delle sue posizioni anti-assimilazionistiche: accantonare le proprie tradizioni, nella speranza di essere accettati, significava per lui muoversi verso una strada senza uscita, che avrebbe portato ad una sorta di suicidio nazionale.
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