Israele si difende
Analisi di Antonio Donno
Nel recente volume Routledge Handbook on Israeli Security (Routledge, 2019), curato da Stuart A. Cohen e Aharon Klieman, si analizzano in modo sistematico tutti gli aspetti della propria sicurezza che Israele ha messo in campo dal 1948 ad oggi, fornendo un approfondito panorama degli straordinari progressi che lo Stato ebraico ha ottenuto in questo campo nei suoi settantuno anni di vita. Uno dei collaboratori di questo volume, David Rodman, ha così sintetizzato tali processi, a partire dalla constatazione che Israele, da paese agricolo e debole, è divenuto un forte paese industriale e la più grande potenza del Medio Oriente. “Questi fatti”, scrive Rodman, “dimostrano l’efficacia delle politiche di difesa conseguita da Israele nei decenni della sua esistenza, […] ma che esso non avrebbe potuto raggiungere gli attuali successi senza aver provveduto ad attuare un alto livello di sicurezza per i suoi cittadini”. Quest’ultima considerazione ha un’importanza decisiva: la sicurezza dei propri cittadini è la base concettuale e pratica di ogni tipo di progresso tecnologico nel campo dello sviluppo militare a difesa dello Stato ebraico. È una valutazione che pone una distinzione profonda tra le concezioni di Israele in questo campo rispetto ai paesi che lo circondano: è la differenza che passa tra una democrazia e una dittatura, per non dire un totalitarismo. Nel corso di tutto il secondo dopoguerra, il conflitto tra Israele e i paesi arabi ha visto un numero molto alto di perdite di vite umane nei due campi, in rapporto alla loro consistenza numerica. Ma vi è una differenza sostanziale tra arabi e israeliani. I paesi arabi e poi le organizzazioni terroristiche palestinesi avevano e hanno l’obiettivo di distruggere Israele, quale che sia l’entità delle perdite di vite umane. Ciò deriva dalla struttura stessa del potere in quei paesi e in quelle organizzazioni: la distruzione del nemico sionista è l’obiettivo principale di quei regimi, per i quali la propria popolazione è soltanto carne da macello da sacrificare per attuare la soluzione finale del problema ebraico in Medio Oriente, come la religione islamica prescrive e i dittatori arabi perseguono per rafforzare il proprio potere nel confronto interno al proprio mondo. Un esempio fra tutti. Se si pone mente al conflitto tra Iran e Iraq negli anni ’80, non può sfuggire un fatto agghiacciante. Per bonificare i terreni minati dagli iracheni, il regime iraniano non si fece scrupolo di sacrificare centinaia di vite umane di ragazzini iraniani che a piedi nudi percorrevano quei terreni per far esplodere le mine. Non occorre aggiungere altro. Viceversa, il conflitto viene vissuto dai governi israeliani innanzitutto come difesa della propria popolazione e del territorio dello Stato ebraico. Tutte le misure predisposte per difendere la popolazione israeliana dagli attacchi missilistici dei suoi nemici vanno nella direzione di ottenere il minimo di perdite di vite umane. È proprio in questa direzione che va lo straordinario ammodernamento tecnologico delle forze armate di Gerusalemme: la capacità di infliggere perdite all’avversario al fine di proteggere le vite dei propri cittadini. In sostanza, “le tre principali strategie di risposta israeliana al terrorismo (o a qualsiasi altra minaccia) – scrivono Meir Elran e Carmit Padan nello stesso volume –, cioè offesa, deterrenza e difesa, poggiano tutte sulla nozione di sicurezza del fronte interno”.
Da parte sua, il fronte interno ha una lunga esperienza in fatto di terrorismo o attacchi di forze militari nemiche. Anche su questo punto, le politiche dei governi israeliani hanno puntato molto sull’aspetto della resilience, cioè sulla capacità della popolazione di resistere e reagire psicologicamente a tali eventi. Non è una cosa semplice, soprattutto da parte dei minori, ma anche da questo punto di vista i risultati sono incoraggianti. “I responsabili della sicurezza di Israele – concludono Elran e Padan – devono esaminare le necessità della popolazione civile esposta in due modi interconnessi: massicci investimenti nel rafforzare la resilienza sociale e nell’irrobustire la convinzione dei civili sul fatto che il terrorismo può essere contenuto. Dopo tutto, il terrorismo ha più successo nell’intimidire che nel conseguire tangibili risultati politici”. Come si vede, un complesso straordinario di strategie che soltanto un paese democratico come Israele, in un contesto dittatoriale o terroristico come il Medio Oriente, può mettere in campo a difesa dei propri cittadini.
Antonio Donno