Riprendiamo dalla STAMPA del 06/06/2019, a pag. 24, con il titolo "Mao, il Grande balzo nel XXI secolo" l'analisi di Christian Rocca; a pag. 25, con il titolo "Il mito antidemocratico della riscossa asiatica", il commento di Carlo Pizzati.
Due articoli a commento delle stragi avvenute nel secolo scorso a opera dei regimi comunisti, tenute rigorosamente sotto tono (anche i due titoli della Stampa ubbidiscono alla regola non scritta del politicamente corretto). Non i testi, però, che ripercorrono i massacri commessi nel nome del comunismo e del proletariato o di un socialismo giustificativo. Ci sono tutti, da Lenin a Stalin, da Fidel Castro a Mao, l'unico a non avere più segreti è Hitler, ma soltanto perchè è stato sconfitto. Dall'URSS alla Cina decine di milioni di morti ammazzati, mentre la pubblica opinione occidentale si beava nella lettura di libri che osannavano le vittorie dei tiranni rossi. Con le debite differenze, la storia si ripete con l'analisi di un certo Parag Khanna che prefigura nel XXI secolo la riscossa asiatica, non come una minaccia ai sistemi democratici, ma augurandosi la loro sostituzione. Due articoli da leggere con attenzione, per capire il futuro prossimo che ci attende.
Ecco gli articoli:
Un manifesto di propaganda maoista
Christian Rocca: "Mao, il Grande balzo nel XXI secolo"
Christian Rocca
Nel 2024 la Cina comunista supererà i 74 anni di vita dell’Unione Sovietica e gli storici potrebbero ricordare la rivoluzione cinese dell’ottobre 1949 non solo come più longeva, ma anche come più influente di quella russa dell’ottobre del 1917, a maggior gloria dell’attuale Politburo di Pechino impegnato in una grandiosa operazione di soft e hard power nel continente asiatico, con ramificazioni in Africa e in Europa e 800 miliardi di euro di investimenti esteri, in uno scenario di sfida geopolitica con gli Stati Uniti per la supremazia economica, tecnologica e militare.
La narrazione occidentale dell’ascesa cinese, da alcuni giudicata pericolosa e da altri un’opportunità, manca sempre di un tassello che invece è il cuore di un bel libro appena uscito in Gran Bretagna, e non ancora tradotto in italiano, scritto da Julia Lovell, professoressa di Cina moderna all’Università di Londra. Il libro si intitola Maoism - A global History (Vintage Publishing)
Il maoismo è la dottrina politica che costituisce, con tutte le contraddizioni ideologiche riconosciute dallo stesso Mao, l’essenza della Cina popolare e del sistema comunista cinese di ieri e di oggi, oltre che una fonte di ispirazione globale senza confini e senza precedenti.
Nel settembre del 1976, il quotidiano La Repubblica diede la notizia della morte del presidente cinese Mao Tse-tung con un titolo di prima pagina che a caratteri di scatola recitava così: «È morto il grande Mao». L’aggettivo «grande» non è esattamente il primo che viene in mente per descrivere un dittatore che, secondo le stime dello studioso olandese Frank Dikötter, un’autorità in materia di Cina, avrebbe causato la morte di 45 milioni di suoi concittadini. Nella mia libreria di casa c’è, esposta al modo di un oggetto pop, una copia del Libretto rosso di Mao, con splendida copertina vermiglio di vinile. Ovviamente non mostrerei mai il Mein Kampf di Hitler o qualcosa di Stalin, così come a nessun giornale sarebbe mai venuto in mente di affiancare l’aggettivo «grande» al nome di un dittatore criminale del Novecento diverso da Mao.
E, dunque, per capire perché il maoismo da idea di riscatto contadino sia diventato forma di governo e un fenomeno globale e pop, capace prima di ammaliare intellettuali e artisti e poi di mantenere lo status di evento alla moda nonostante lo sterminio di massa, Lovell racconta che il mito di Mao nasce grazie a un libro del 1936 scritto dal giornalista americano Edgar Snow, intitolato Stella rossa sulla Cina e frutto di lunghi colloqui con Mao durante la guerra civile tra i comunisti e il governo nazionalista cinese. Quel libro, tradotto anche in cinese, ha fatto diventare Mao una celebrità politica locale e internazionale e ha fatto da didascalia all’ascesa al potere del Grande Timoniere, al «Grande balzo in avanti» con cui avrebbe dovuto riformare il Paese e alla Grande rivoluzione culturale con cui si riprese in mano il partito dopo il fallimento del piano economico. Mao ha ispirato una serie infinita di movimenti politici in Asia e in America Latina, in Africa e in Europa, vecchi e nuovi, alcuni dei quali sono arrivati al potere, come Pol Pot in Cambogia e Kim Il-sung in Corea del Nord, altri sono sconfinati nella lotta armata, come Sendero Luminoso in Perù, le Brigate rosse in Italia, la Rote Armee Fraktion in Germania, le Pantere nere negli Stati Uniti e l’Olp in Medio Oriente.
Il saggio di Lovell racconta l’ubriacatura politica e culturale dagli anni Sessanta a oggi, dai caffè parigini ad alcuni tragicomici esempi italiani come Servire il Popolo di Aldo Brandirali e le mobilitazioni studentesche a Pisa e alla Cattolica di Milano, ma avverte il lettore che l’appeal globale del Grande Timoniere non è un retaggio del passato. Il maoismo globale, piuttosto, è un’ideologia viva anche nel XXI secolo, in Asia soprattutto, con non poche influenze sull’islamismo radicale, dal regime degli ayatollah sciiti in Iran alle tattiche di guerriglia militare dell’Isis, ma anche sulla retorica della volontà popolare e della «democrazia di massa« contro le élite tecnocratiche delle metropoli.
La parte più preoccupante del saggio di Lovell è quella sulla Cina contemporanea: nel 2018 il presidente Xi Jinping ha cancellato il limite dei due mandati imposto da Deng nel 1982, trasformandosi in presidente a vita e nel Grande Timoniere del XXI secolo, e alimentando un culto della personalità che ricorda quello riservato a Mao. I telegiornali della sera trasmettono servizi che fanno entrare nelle case dei cinesi tutti e quattro i minuti e i sedici secondi di applausi a scena aperta ricevuti da Xi in occasione del ritiro di un qualche premio. Il controllo tecnologico ha raffinato le tecniche di sorveglianza di massa, di repressione del dissenso e di invio degli oppositori nei campi di rieducazione.
In piazza Tienanmen si erge il mausoleo di Mao, mentre il quadro di sei metri per quattro, raffigurante il Grande Timoniere, domina l’accesso alla Città proibita. Nel 2016 una gigantesca statua dorata di Mao alta 37 metri è sorta tra mille fanfare nella provincia di Henan, prima di essere abbattuta senza spiegazione dalle autorità. Le stesse autorità che prima hanno accompagnato l’ascesa di Bo Xilai, una delle figure primarie dell’apparato cinese, noto per voler restaurare i fasti della Rivoluzione culturale maoista, e poi lo hanno incarcerato e condannato all’ergastolo.
Deng aveva rigettato il maoismo, ma al contrario dell’Unione Sovietica che, disfacendosi di Stalin, poteva contare sulla figura unificante di Lenin, la Cina non ha nessun altro mito su cui fondarsi. Tranne Mao.
Carlo Pizzati: "Il mito antidemocratico della riscossa asiatica"
Carlo Pizzati
Parag Khanna
Nel secolo scorso avevano successo le analisi su un archetipo dell’Occidente, il cosiddetto «pericolo giallo« di un possibile risveglio dell’Asia. Si pensi alla Sfida globale di Jean Jacques Servan-Schreiber che delineava nel Giappone del 1980 il futuro padrone del mondo. Non andò esattamente così. Ora che gli equilibri economici s’inclinano davvero verso l’Asia, inizia la moda delle agiografie su una Cina tecnocratica che guida la riscossa mondiale del continente.
A questa categoria appartiene Il secolo asiatico? di Parag Khanna (Fazi, € 25) il cui titolo in inglese dichiara, senza punteggiatura interrogativa, che The future is Asian. Si tratta di 455 pagine che si aprono con un distillato vertiginoso di reinterpretazioni storiche, fuori dalla prospettiva eurocentrica, per passare all’Asia-nomics del «sistema Asia» dopo aver eliminato lo stereotipo di un’Asia più bisognosa dell’Occidente che non il contrario.
Un libro da sottolineare e da leggere con cura. Anche e soprattutto per non condividerne l’evidente spregio verso i valori fondanti della democrazia come i diritti civili, la libertà personale e quella politica. La democrazia liberale, dichiara infatti Khanna, non è adatta all’Asia quanto il «dispotismo benevolo» di matrice singaporiana. E qui l’autore, nato in India, ma cresciuto negli Stati Uniti, laureato alla London School of Economics e ora residente nella ricca isoletta di Singapore, rivela i limiti di un’analisi formulata senza abitare nell’Asia vera, quella ancora sottosviluppata, dove c’è il dengue, la malaria, le strade con le buche, dove i macchinari si rompono, i funzionari si corrompono, come anche gli elettori, e non in quell’«Asia globale» delle tecnocrazie che portano risultati, ma imprigionando o esiliando voci contrarie e minoranze religiose, facendo a pezzi o lasciando uccidere i giornalisti scomodi, prendendo a frustate o a lapidando donne indipendenti e Lgbt. Queste preoccupazioni, per Khanna, sono «chiacchiere ipocrite».
Quest’inno alle tecnocrazie asiatiche dell’uomo forte da una prospettiva Pechino-centrica incarna ciò che descrive: la trasformazione di una visione del mondo. Alcune tesi potrebbero anche apparire condivisibili, ma quando Khanna sfora nella futurologia basata sulle promesse di politici come l’indiano Modi, il filippino Duterte o l’indonesiano Jokowi, invece che su fatti comprovati, diventa azzardato fidarsi delle conclusioni.
Siamo nell’era dell’asianizzazione multilaterale, dice Khanna, non del predominio della Cina. L’Asia s’inizia in Turchia e finisce in Australia ed è rinata negli anni ’80 con il boom giapponese, seguito dalle Tigri asiatiche: Singapore, Taiwan e Corea del Nord. Poi è arrivato il boom cinese. Il maggio 2017 sarà una data storica: la nascita della Belt and Road Initiative. Con i finanziamenti infrastrutturali cinesi si rifà il mondo, dice Khanna. Ma come? Facendo indebitare paesi asiatici fino al 75 % per poi avanzare pretese territoriali? Ne sa qualcosa lo Sri Lanka che per rimborsare i debiti cinesi ha dovuto cedere a Pechino l’usufrutto del porto di Hambantota per 99 anni.
Ma l’autore sostiene che non esistono mire imperialiste cinesi, solo commerciali (come se non fossero perennemente intrecciate). Il mondo sarà gestito da Usa, Europa e un’Asia che si rafforza commerciando sempre più all’interno del continente stesso.
Siamo nel panasiatismo di Okakura Tenshin e a quell’invito dello scienziato politico Zhang Weiwei affinché «la gerarchia occidentale sia sostituita dalla parità tra civiltà».
Ma se da un lato Khanna dice che l’Indice di Sviluppo Inclusivo è più importante del Pil e che paesi asiatici come Australia, Nuova Zelanda, Corea del Sud e Israele occupano i primi posti, poi troviamo Afghanistan, Pakistan, Bangladesh, Cambogia, Laos, Yemen e un miliardo e 400 milioni di indiani tra gli ultimi. In Asia crescono aspettativa di vita, risparmio e reddito medio, ma non sempre si abbassa il livello di povertà né aumenta il tasso di eguaglianza, anzi. Mentre s’impenna l’emissione di carbonio.
Nella sua infervorata prospettiva anti-Occidentale e avendo perso la bussola democratica, Khanna si entusiasma per l’inurbamento, prendendo troppo alla leggera la morte, ogni anno, di 2 milioni e mezzo di persone in India e il milione e 800 mila in Cina per le conseguenze dell’inquinamento. Vittime del futuro asiatico, si presume.
Queste perdite, come quelle dei diritti civili e umani, sono il prezzo necessario alla crescita, questo ci dice il difensore dei regimi autoritari asiatici, paladino della governance tecnocratica, con una leggerezza da tecnocrate cui in Occidente forse non siamo ancora abbastanza preparati.
Il futuro che ci attende nel secolo asiatico rischia di buttar via con l’acqua sporca dei limiti egalitari dell’Occidente anche il bambino di una società democratica sbocciata con l’Illuminismo e la Rivoluzione francese. In nome del progresso economico.
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