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La Stampa Rassegna Stampa
03.06.2019 Il grande cratere del Negev che segna l'alba della preistoria
Commento di Fernando Gentilini

Testata: La Stampa
Data: 03 giugno 2019
Pagina: 28
Autore: Fernando Gentilini
Titolo: «A strapiombo sulla preistoria»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 03/06/2019, a pag.28, con il titolo "A strapiombo sulla preistoria", il commento di Fernando Gentilini.

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Fernando Gentilini

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Il makhtesh (Cratere) Ramon

Il cratere (makhtesh) sembra senza vita, una distesa fossile di polveri e sabbie infuocate. E invece questa ferita ancora aperta sulla pelle del deserto del Negev, lunga 40 chilometri, larga fino a 10 e profonda 500 metri, nasconde sorprese a non finire. Perché non è vero che il deserto è sinonimo di morte. Il deserto è anche purezza, gioia, esplosione di vita.
Quando nel 1951 iniziarono i lavori per la strada verso il mar Rosso, gli israeliani costruirono un campo per operai e militari proprio qui, 85 chilometri a Sud di Be’er Sheva e 150 a Nord di Elat. Un avamposto modernista a strapiombo sulla preistoria, che negli anni Sessanta si popolò di immigrati dal Nord Africa, dall’India e dall’Europa orientale.

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Mitpze vuol dire «punto di osservazione», Ramon sta per «Romani», dall’ebraico Roma’im, come venivano chiamati i legionari dell’imperatore Traiano. Dalla sommità del cratere potevi vederli avanzare lenti sulla linea dell’orizzonte: alla testa delle carovane di dromedari che all’inizio del secondo secolo della nostra era trasportavano spezie verso Roma.
Avevano scalzato i Nabatei, che avevano inaugurato la Via dell’Incenso quattro secoli prima. Partiva dall’India, raggiungeva l’Oman e lo Yemen, e poi risaliva la penisola arabica costeggiando il mar Rosso. Fino a Petra il pericolo era il deserto, il più inospitale di tutti. Dopo c’era il rischio predoni, e il cratere rappresentava l’imboscata ideale.
Da Petra si poteva raggiungere il porto di Gaza passando per Moa-Avdav-Haluza; oppure lungo la pista Hazeva-Zafir-Memshit, un po’ più a Nord, che consentiva di caricare sale e bitume dal mar Morto. Caravanserragli, torri, stazioni e taverne furono in uso per altri tredici secoli. La sabbia li seppellì all’inizio del Cinquecento, quando i mercanti d’incenso scoprirono la rotta del Capo di Buona Speranza.
Comunque l’unico essere umano che si riesce a immaginare da queste parti è l’Homo sapiens africano. Perché è un paesaggio ancora primordiale quello del cratere. Le prime tribù nomadi arrivarono dalle regioni equatoriali. E proseguirono da qui la migrazione verso l’Eurasia, dove sarebbe avvenuto lo scontro con i Neandertal.
Della preistoria, in fondo al makhtesh, sono rimasti i segni: pietre liquefatte dal sole e diventate cristalli; una muraglia di ammoniti giganti a ricordare barriere coralline vecchie milioni di anni; e nel punto più basso della depressione la sorgente di Ein Saharonim, epitaffio del vero diluvio universale che forse fu quello scatenato dal Big Bang.

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Le lancette del megatempo geologico si muovono impercettibili agli umani. E quaggiù è come se si fossero fermate ai cataclismi della Genesi o dell’Esodo: con i segni di un oceano che si è ritirato, di fiumi più grandi del Nilo che hanno cambiato corso, e di montagne sprofondate per sempre con le loro immense foreste.
Al calar del sole il paesaggio si popola di nuove creature. Spariscono capre nubiane, lucertole e avvoltoi, ed entrano in azione sciacalli, volpi rosse e topi egiziani. Anche i serpenti e gli scorpioni preferiscono l’oscurità. Ragion per cui, prima di notte, è bene rientrare a casa e dedicarsi a pensieri più alti.
A Mitzpe Ramon le stelle sono così vicine che pare facciano parte del paesaggio terrestre. Difatti i suoi abitanti passano le sere a testa in su, scaricando l’app della mappa del cielo su tablet e telefonini. Qui lo sanno tutti che esistono ottantotto costellazioni, ciascuna con la propria mitologia. E sanno pure che il firmamento si può vedere un pezzo alla volta e che gli astri salgono e scendono rispetto alla linea dell’orizzonte...
Scrutando la cupola celeste si capisce come mai il Centro Visitatori sul bordo del cratere sia stato dedicato a Ilan Ramon, l’astronauta israeliano scomparso nel 2003 nella tragedia della navicella Columbia: il cognome può trarre in inganno, far pensare che fosse di qui (era nato a Ramat Gan, vicino a Tel Aviv); e invece il motivo è lo spazio-tempo che inghiotte questo luogo, e ne fa un limbo tra il Terra e le stelle.
I deserti, di notte, fanno sempre pensare al cielo. Sarà la profondità, il silenzio, o forse saranno le misteriose corrispondenze tra le tempeste galattiche e quelle di sabbia. A Mitzpe Ramon, quand’è sera, il lontano si fa vicino, e i sentieri di luce della Via Lattea sono lo specchio di quelli spenti della Via dell’Incenso. Non c’era posto migliore per celebrare l’astronauta-pioniere, perché da qui è irresistibile la fissità del richiamo.

 

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