Riprendiamo da SHALOM aprile/maggio 2019 a pag.16 con il titolo "Apartheid in Israele? un'accusa ideologica che non regge alla prova dei fatti" il commento di Angelo Pezzana
Davide Lerner
Una delle accuse più comuni nei confronti di Israele è quella di essere uno ‘stato di apartheid’. Una accusa che viene diffusa non soltanto dai fanatici odiatori di professione, ma che attecchisce e si propaga fra l’opinione pubblica comune, come rilevano i sondaggi sempre più numerosi e precisi che vengono fatti in diversi paesi europei. Il ricordo del Sud Africa poi è ancora troppo vicino, per cui non occorre neppure dare altre spiegazioni: se in Israele c’è l’apartheid il paragone regge. Non è il solo, la segregazione negli Usa è stata abolita, ma la differenza con il Sud Africa era tutt’altro che sottile, un esempio di forte impatto per la nostra memoria ci è venuto dal film vincitore di molti Oscar “Green Book”, dove l’America ricorda con coraggio un orribile passato.
Ma che cosa c’entra Israele? È vero che gran parte delle notizie che riguardano lo stato ebraico arrivano con il visto della propaganda palestinese, il che giustifica l’ignoranza di chi poi sottoscrive certe sentenze. Se l’informazione che entra nelle nostre case non fosse ingannevole, chiunque potrebbe rendersi conto, esempi alla mano, che la realtà è un’altra. A Gerusalemme c’è un museo, il ‘Museum for islamic Art’ che non ha nulla da invidiare a quelli che raccontano la storia degli ebrei. Nel febbraio scorso c’è stata mostra fotografica dal titolo “Legitimacy of Landscape” –la legittimità del paesaggio- che anche solo dal titolo non è difficile immaginare il contenuto. Il fotografo Yaakov Israel ha girato molti villaggi arabi palestinesi, ‘invisibili a molti ebrei israeliani’ come era scritto nelle pubblicità del museo. Li ha fotografati con la finalità- così ha dichiarato- di far conoscere “l’altro”. Apartheid? A Tel Aviv, in gennaio, nella prestigiosa galleria d’arte Hamidrasha,l’artista israeliano David Reeb ha esposto i suoi dipinti tratti da video nei quali aveva ripreso dimostrazioni di protesta contro Israele. Non proteste di tipo sindacale, ma dettate da una specifica propaganda politica che mira a delegittimare il diritto di Israele a vivere nel proprio stato. Dalla ragazzina Tamimi, diventata una star internazionale per aver schiaffeggiato un soldato di Tsahal, che l’aveva allontanata per impedirle di continuare nella sua eroica impresa. Idem con gli innumerevoli graffiti sui muri che impediscono ai terroristi arabi palestinesi, magari anche con i documenti d’identità israeliani, di entrare e fare altre stragi. Il diligente David Reeb ha filmato, fotografato, dopodiché ha esibito il risultato del suo ‘lavoro’ in una galleria di Tel Aviv. Apartheid? Di Arafat sappiamo tutto, oltre ad essere stato l’organizzatore dei più orribili attentati, verrà ricordato per essere stato il responsabile iniziale dei fallimenti di ogni tentativo di raggiungere un accordo con Israele, politica perseguita dai suoi successori. Meritava un Museo per mantenerne viva la memoria? Non disponendo di leader che abbiano dedicato la loro vita a creare le condizioni indispensabili per poter affermare di aver gettato le fondamenta del proprio futuro stato, l’Olp ha sostituito quell’obiettivo con il terrorismo contro Israele. I risultati si vedono. L’unica eredità spendibile è dunque Arafat, per cui nel 2016 veniva inaugurato un museo a Ramallah dedicato alla sua memoria. Dell’evento,di per sé modesto, non se n’è accorto nessuno, essendo le priorità di Abu Mazen la guerra contro Israele, nell’illusione di poter avere una intera Palestina ‘judenrein’. A fare un po’ di pubblicità al museo ci pensano i volonterosi intellettuali disponibili – fotografi, scrittori, giornalisti- che meriterebbero la medaglia,se ce ne fosse una- per i servizi resi alla memoria del defunto e dimenticato capo dell’Olp. Dove ? Su Haaretz, ovviamente,che ha dedicato una pagina intera per la firma di Davide Lerner,una apologia in piena regola. Apartheid? Suvvia!
Angelo Pezzana