Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 27/05/2019 a pag.35 con il titolo 'La mia Siria ha perso il treno' il commento di Francesca Paci.
Francesca Paci
Sono passati otto anni da quando un’avanguardia di coraggiosi siriani tentò l’assalto al cielo sperando nell’onda lunga delle primavere arabe. Erano mesi di navigazione a vista, il regime alawita vacillava, sembrava che la cortina di terrore con cui gli Assad avevano blindato il proprio potere fosse espugnabile. Ma andò diversamente: prevalsero il cinismo e la ferocia, la guerra s’impose sulla politica, gli ideali franarono come gli edifici fino a lasciare in piedi a mala pena l’identità di un popolo spezzato. Ne arriva l’eco ogni tanto dall’epopea dei rifugiati, la Storia però non si cura dei vinti. Il Paese che era la nostra casa, pubblicato da Enrico Damiani Editore, colma un vuoto narrativo ricostruendo l’attimo fuggente d’una generazione perduta, quella dell’autrice, Alia Malek, natali negli Stati Uniti e Dna a Damasco, una siriana della diaspora che, all’epoca 36enne, pensò di lasciare la comoda New York per tornare nella casa dei padri a vendicarne l’oppressione.
Alia Malek
«Avevo creduto a lungo che noi arabi fossimo condannati a sbatterci invano tra dittatori e islamisti, ma di colpo sembrava che lo status quo stesse traballando perfino in Siria, allora approfittai della scusa di restaurare l’antica casa di mia nonna per trasferirmi a Damasco» ricorda Alia in un piccolo caffè romano. Il suo libro fa perno sul 2011 ma parte da lontano, l’incipit è il primo vagito del bisnonno materno Abdeljawwad al Mir, nato nell’Impero ottomano e sepolto nella Siria già in mano al partito Ba’th, una cavalcata attraverso due secoli che inquadra l’epopea di una famiglia nell’involuzione graduale della società.
La copertina (Damiani ed.)
Una barzelletta triste
C’è una barzelletta triste che Alia ascolta nella Damasco in cui atterra vagheggiando il riscatto. I maggiori servizi segreti del mondo si sfidano a chi catturi più rapidamente una volpe e l’esito è tragicomico: il Mossad, la Cia e il Kgb vincono a pari merito, mentre gli agenti del Mukabarat siriano esibiscono un coniglio torturato fino alla confessione di essere una volpe. «Otto anni fa in Siria la gente parlava solo di matrimoni, figli, parrucchieri, erano tutti così spaventati da non nominare la politica neppure in privato», continua Alia. «L’avvento di Bashar al Assad, presidente per caso, aveva lasciato intravedere un barlume ma era stata una chimera. Poi, nel 2011, ecco le manifestazioni a Daraa, uno spiraglio. I miei genitori non volevano che andassi e i parenti non mi accolsero bene, qualcuno aveva paura per me e altri temevano che li mettessi in cattiva luce con il regime».
Damasco a quel punto è un quadro di guerra senza la guerra. Lei prende nota di ogni dettaglio, «ho visto il coraggio dei siriani, la solidarietà, ma ho visto anche la delazione, le calunnie di chi attribuiva la rivolta a Israele o agli Stati Uniti, ho visto la disinformazione, ho visto arrestare chi portava il cioccolato ai bambini bombardati di Homs. Il regime voleva la nebbia morale per spacciare la repressione come sfida al terrorismo e il ricorso alle armi del Free Syrian Army, sia pur in buona fede, è stato funzionale alla repressione».
La Siria di ieri e quella di oggi s’impastano carnalmente come in un quadro di Francis Bacon, memoria, sangue, movimento statico: «Prima della rivoluzione il Paese mi ricordava mia nonna, i cui occhi vigili sono stati fino alla morte l’unico guizzo di un corpo paralizzato tempo prima dall’ictus. I siriani erano così, condannati a tacere». Dopo la rivoluzione, però, è andata sempre peggio: per lei che nel 2013 è stata costretta a tornare in America, e per i siriani, massacrati dal padre da cui volevano emanciparsi e ignorati dall’Occidente stanco delle primavere arabe e soprattutto di quella «contro un tiranno anti-americano, filo-palestinese, un’icona dell’antica resistenza terzomondista».
Quando nel 2015 Alia fu invitata alla Casa Bianca dai «sirianologi» del presidente, Ben Rhodes e Rob Malley, capì che il treno era passato: «Da una parte Obama non voleva giocare di sponda con i sauditi, li detestava, dall’altra voleva firmare a tutti i costi l’accordo con l’Iran: la Siria non aveva chance».
Impossibile riconciliazione
Il regime ha fatto leva su tante cose, l’ambiguità del suo ruolo geopolitico, il disaccordo internazionale, e ha vinto: «I siriani sono esausti, otto anni di guerra, i morti, i profughi, la nostra casa è come la casa di una donna picchiata dal marito. Gli shabia, gli sgherri che hanno represso la rivolta urbana a nome dell’esercito di Assad, chiedono oggi conto del loro lavoro sporco e minacciano Damasco. A chi mi chiede se ne valesse la pena non so cosa rispondere e già solo la mia incertezza suggerisce come il sogno della libertà, morire dentro o morire davvero, abbia avuto un prezzo insostenibile». Punto e a capo.
No, chiosa, le braci non sono spente: «Ci vorrà tempo ma rialzeremo la testa. Non siamo più ingenui, sappiamo che terrorizzandoci il regime ci aveva inibito la parola, non ci conoscevamo, le strade dissestate tra una città e l’altra impedivano che ci incontrassimo. Adesso però ci sono sei milioni di siriani fuori del Paese e parlano, la vecchia diaspora si mescola alla nuova. L’invito alla riconciliazione di Assad non ha convinto nessuno, è come se Hitler invitasse gli ebrei a tornare in Germania e fare pace. Siamo vivi».
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