L'economia Usa secondo Donald Trump
Analisi di Antonio Donno
A proposito dei suoi elettori, Trump così ha detto: “Hanno ragione. È necessario che si sappia che io non sono né un isolazionista né un protezionista. Sono un uomo d’affari. Perciò sono ben consapevole del valore del commercio internazionale”.
Questa breve ma sostanziale affermazione del presidente americano è la migliore illustrazione della sua politica economica.
Ed è proprio lungo questa direttrice che si svolge il libro di Stephen Moore e Arthur B. Laffer, Trumponomics. Inside the America First Plan to Revive Our Economy (All Points Books), un’opera che finalmente analizza senza pregiudizi e distorsioni il progetto economico di Trump: libero commercio, ma su un piano di equità reciproca.
Ciò vuol dire che Trump avrebbe usato, e sta usando, minacce tariffarie contro la Cina, il Canada e il Messico (NAFTA), e l’Unione Europea per indurre quei paesi ad applicare tariffe più eque nei confronti dei prodotti americani.
E sul NAFTA, Trump ha detto: “Il Nafta è il peggior accordo economico nella storia degli Stati Uniti”.
Il presidente americano è consapevole che le alte tariffe nei confronti delle merci americane hanno prodotto un enorme deficit nella bilancia commerciale americana: occorre mettere in atto sanzioni commerciali sui prodotti esteri per indurre i paesi che commerciano con gli Stati Uniti ad abbassare le proprie tariffe sulle merci americane.
Non si tratta, dunque, di protezionismo, né di isolazionismo. Sono due termini usati malevolmente dagli avversari di Trump, interni ed esteri, per mettere sotto accusa il trade deal del presidente americano. Al contrario, si tratta di una politica economica che intende riequilibrare il commercio mondiale secondo regole improntate ad un giusto vantaggio reciproco.
Su questo tema di importanza cruciale, è importante spiegare perché, sino ad ora, le amministrazioni americane hanno accettato questo scambio economico così sbilanciato. Si tratta di ragioni politiche.
Per quanto riguarda l’Europa, queste ragioni risalgono agli anni successivi la fine della seconda guerra, quando il pericolo comunista consigliò agli americani di adottare tariffe favorevoli ai paesi dell’Europa occidentale, iniziativa che è continuata nel tempo, anche nei confronti dell’Unione Europea.
Più recente è la questione della Cina. Obama ha accettato lo sbilanciamento tariffario perché ha creduto di poter concordare con la Cina un’intesa politica che limitasse la crescente influenza di Pechino nel Pacifico asiatico. Il tentativo obamiano è completamente fallito.
Meno evidenti sono le ragioni politiche per il NAFTA, ma lo squilibrio commerciale è comunque evidente. Trump, in questo modo, separa le ragioni economiche da quelle politiche. Lo ha detto esplicitamente: occorre “negoziare accordi molto migliori per le compagnie americane e per i lavoratori americani”, al fine di creare le condizioni per nuovi posti di lavoro. In fondo, i suoi elettori sono stati proprio i lavoratori, soprattutto quelli della Rust Belt del Midwest (la grande area tra gli Appalachi e il Grandi Laghi, tradizionalmente sottosviluppata, soprattutto dopo la chiusura delle miniere di carbone voluta da Obama) e delle altre regioni più povere degli Stati Uniti.
La negoziazione messa in atto da Trump prescinde completamente dai tradizionali accordi multilaterali, il cui complesso intreccio spesso finiva per non dare a Washington la giusta parte nell’esito finale dei trattati commerciali; Trump preferisce accordi bilaterali, one-to-one, come nelle abitudini degli uomini d’affari, in cui il dare e avere è chiaro e i patti altrettanto espliciti.
Insomma, Trump ha ribaltato “la libera ortodossia commerciale che datava da almeno tre decenni, il cosiddetto nuovo ordine mondiale”, per ridare fiato ai settori più poveri della classe operaia americana, duramente colpiti proprio da questo nuovo ordine mondiale: “La posizione di Trump in materia commerciale intende andare incontro ai milioni di elettori”, che lo hanno votato e che vivono nelle regioni più disagiate degli Stati Uniti.
Con un’espressione tipica dell’epoca della colonizzazione del West, gli autori del libro affermano che Trump “ha voluto avvisare i leader internazionali che vi è un nuovo sceriffo in città” e che le cose sono destinate a cambiare.
I critici di Trump sostengono che la pressione del presidente americano per modificare le ingiuste regole commerciali porterebbe a crisi politiche proprio con quei paesi con i quali gli Stati Uniti hanno i più importanti rapporti commerciali. Trump ritiene che tollerare questi accordi sbilanciati e le continue violazioni da parte della Cina degli accordi commerciali concordati significa continuare a danneggiare l’economia americana e, di conseguenza, la stessa occupazione.
Le eventuali incrinature nei rapporti politici non devono spaventare gli americani: “Una delle più importanti componenti della filosofia commerciale di Trump – scrivono Moore e Laffer – è la sua convinzione che noi possiamo imporre la nostra volontà alle altre nazioni, perché i maggiori partner commerciali come la Cina, la Russia, il Giappone e il Messico hanno bisogno dell’America molto più di quanto noi abbiamo bisogno di loro”.
I fatti stanno progressivamente dando ragione al presidente americano: “Un rapporto del maggio 2018 del IMD Competitiveness Center in Svizzera – questa è la conclusione del libro – esamina 256 variabili in più di cento nazioni e scopre che gli Stati Uniti ‘sono balzati al vertice della competitività internazionale’”.
Tutto grazie alla nuova politica commerciale di Trump.
Antonio Donno