Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 23/05/2019, a pag. 3 la recensione di Giulia Ciarapica a "Nessuno ritorna a Baghdad" di Elena Loewenthal.
Elena Loewenthal
La copertina (Bompiani ed.)
Alla spicciolata, colmi di paura e disperazione, consapevoli che non sarebbero riusciti a vivere con i piedi per terra da nessun’altra parte del mondo, gli ebrei di Baghdad stavano scappando”. Le saghe familiari sono il luogo ideale per imparare a conoscere il mondo e per capire gli snodi della Storia quando, come in questo caso, si presentano piuttosto difficili da districare anche a posteriori. Elena Loewenthal nel suo ultimo lavoro edito in Italia da Bompiani, Nessu - no ritorna a Baghdad, mette in scena un magistrale mosaico di incastri storici, a cui si sommano le microvicende della famiglia Zilka. Tutto inizia durante la Seconda guerra mondiale; siamo in Iraq insieme a Norma, che ha appena perso il marito, e insieme ai suoi figli, Flora, Violette e Ameer. Saranno loro, con un cumulo di vite borderline, a condurci tra i paesi che li ospiteranno – New York, Milano, Madrid, Gerusalemme, Teheran, Haifa –, mentre il lettore, consapevole di ciò che sta accadendo ma forse non del tutto pronto ad accogliere la crudeltà di certe situazioni e la durezza di taluni sentimenti, cerca di seguire i protagonisti in un viaggio lungo una vita, un’agonia chiamata diaspora. E’ da questo momento storico e da questo luogo, Baghdad, che l’autrice parte per raccontare le avventure degli arabi ebrei, gli stessi che nel 1948 festeggiarono quello che sarebbe dovuto essere un ritorno (e che tale non fu) nella Terra promessa. La Loewenthal ci racconta prima gli anni della diaspora, poi quelli della nascita di uno stato ambiguo – creato su carta dalle Nazioni Unite ma che subito attirò l’interesse dei nemici – e infine gli anni della modernità, accompagnati da una blanda idea di distensione. “Tornare, non si torna mai. Si parte, ma non si torna. Un posto vale l’altro. Noi l’Iraq ce l’abbiamo dentro e non importa dove ce lo portiamo. E’ la vita che conta, la gente. Nessuno ritorna a Baghdad, forse neanche ci siamo mai stati, in questi millenni”: il destino di tutti i personaggi messi in scena dalla Loewenthal incarna il destino stesso della loro terra; sono addirittura strutturati come fossero, proprio loro, la terra che hanno abitato – seppur per poco tempo – e alla quale nonostante tutto sentono di appartenere. La diaspora, elemento chiave di tutto il romanzo, viene intesa non solo come “momento storico” ma come stile di vita: ogni uomo, ogni donna, ogni figlio – piccolo o adulto che sia –, al di là della grande diaspora degli arabi ebrei, ha condotto una propria, minuscola, eppure fondamentale diaspora individuale, che si rispecchia nel trauma più grande: l’abbandono da parte della madre. Flora, Violette e Ameer vengono inquadrati da Elena Loewenthal in tutto il periodo di crescita, da adolescenti ad anziani, seguendo un ordine temporale lineare; il loro vissuto, e dunque tutte le loro scelte di lì in avanti, si baseranno su un fatto principe, da cui tutto ha inizio: Norma che, ormai vedova, parte per non tornare mai più. Eccolo, chiaro e limpido, l’abbandono della Madre-terra, che sarà il preludio all’abbandono – questa volta da parte dei figli – della Terra-madre, l’Iraq, dove non faranno ritorno perché “nessuno ritorna a Baghdad”. Ogni cosa è legata all’altra in modo viscerale e necessario: nessuno si guarda indietro, non esiste un passato, non esistono ricordi, bandita dai cuori è la nostalgia. Mentre i figli crescono e invecchiano, nel racconto della Loewenthal Norma invecchia per poi tornare bambina, grazie a una tecnica narrativa che accompagna il lettore attraverso un cammino irto di ostacoli eppure armonioso, a tratti ironico, sicuramente originale.
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