Giordano Stabile: "Artiglieria e blindati per piegare la capitale"
Giordano Stabile
Si continua a combattere a meno di 15 chilometri dal centro e a Tripoli c’è sempre meno fiducia nelle possibilità di mediazione dell’Onu. Gli attivisti in piazza dei Martiri hanno appeso un grande striscione contro le Nazioni Unite, con il loro simbolo coperto dalla scritta «Dégage», cioè «vai via», lo slogan della rivoluzione dei gelsomini in Tunisia nel 2011 e dell’inizio della primavera araba. I volantini diffusi in piazza accusano l’Onu di aver di fatto preso le parti del maresciallo Haftar, per il rifiuto di indicarlo come unico responsabile della battaglia cominciata il 4 aprile e costata la vita a 510 persone. La sensazione nella capitale è che, dopo l’America, anche le Nazioni Unite abbiamo abbandonato il governo di unità nazionale di Sarraj, che pure è nato sotto il loro patrocinio.
L’assedio continua e Haftar sembra voler prendere la capitale per logoramento. Le esplosioni dovute ai raid aerei e ai colpi di artiglieria pesante si sono udite tutto il pomeriggio fin sulla corniche, in riva al mare. I combattimenti sono concentrati, come nei giorni scorsi, nel quartiere meridionale di Salahddin e attorno alla caserma di Yarmouk. L’aviazione del maresciallo cerca di demolire le postazioni delle forze filo-governative, che hanno dovuto ripiegare. I droni emiratini a disposizione di Haftar continuano a essere un grosso problema, perché le milizie non hanno anti-aerea efficace. Sperano in nuovi rifornimenti dalla Turchia, dopo l’arrivo di decine di blindati «Kirpi». Anche dall’altra parte, però, continuano a giungere equipaggiamenti, nonostante l’embargo teorico imposto dall’Onu: gli ultimi sono blindati «Mbombe» a otto ruote motrici, a quanto pare dalla Giordania.
Allarme acqua
Ma la popolazione deve affrontare anche un’altra emergenza, oltre all’esplosione dei prezzi del cibo, le lunghe code ai distributori di benzina e davanti alla banche per procurarsi contanti. Due giorni fa una milizia non identificata ha fatto irruzione nel centro di controllo del Great Man Made River, il gigantesco acquedotto che rifornisce la capitale da laghi sotterranei nel deserto, in una zona controllata da Haftar. Ieri mattina numerosi quartieri sono rimasti a secco. In questo caso però l’intervento dell’Onu è parso efficace, perché in serata, dopo un duro comunicato del Palazzo di Vetro, le forniture sono riprese. Tripoli non cadrà per sete, per ora.
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Paolo Mastrolilli
Ghassan Salamé, rappresentante speciale dell'Onu in Libia
«L’Isis sta approfittando della guerra per tornare in Libia. Finora ci sono stati quattro attacchi al sud, ma io credo che abbia cellule dormienti anche a Tripoli e altrove». L’allarme viene da Ghassan Salamé, rappresentante speciale Onu, che abbiamo incontrato dopo l’intervento di ieri al Consiglio di Sicurezza.
Cosa può fare l’Italia per stabilizzare il Paese?
«Abbiamo bisogno del cessate il fuoco, per tornare al negoziato politico, ma non possiamo averlo senza che i Paesi più coinvolti lo chiedano. Siamo allo stallo militare, dobbiamo tornare al processo politico. L’Italia ha molti amici in Libia, può dire loro che bisogna fare la tregua. La seconda sfida è che l’embargo delle armi viene sfidato pubblicamente, da tutte le parti, e ciò mina la credibilità delle risoluzioni dell’Onu. Non è solo un problema legale, molto peggio. L’arrivo di nuove armi, in maggiore quantità e qualità, dà a tutte le parti l’illusione di poter vincere la guerra, e ciò rende ancora più difficile l’accettazione della tregua. Questi sono problemi su cui l’Italia può avere un peso, e io sono felice che la vostra ambasciata sia ancora aperta».
Haftar però ha detto al premier Conte che non fermerà l’attacco.
«Ho sentito dagli amici italiani che l’incontro a Roma non è stato un successo. Nessuno ora è ansioso di fare la tregua, perché tutti credono che l’arrivo di nuove armi e la persistenza porteranno a una soluzione militare. È un errore, perché prima o poi servirà un accordo politico: allora perché aspettare? Perché uccidere altre persone e buttare soldi? Capisco che possa sembrare un cliché, ma in Libia non c’è una soluzione militare. Ritardare la tregua invece può produrre danni irreversibili, come l’arrivo di nuovi mercenari, l’uso degli espatriati in attività belliche, l’ingresso di attori che non vorresti in circolazione. I combattimenti poi avvengono a 3 o 4 chilometri dalle zone più abitate di Tripoli. Dio non voglia che le colpiscano, perché il numero delle vittime diventerebbe straordinariamente diverso».
Alcuni stimano che 100.000 migranti siano pronti a partire per le coste italiane.
«Non so come siano arrivati a questa stima, ma posso dirvi che gli affitti in Tunisia stanno salendo. Ciò significa che la gente in fuga non si aspetta una rapida fine dei combattimenti».
Questo non aumenta le possibilità che i rifugiati si imbarchino?
«Finora non l’abbiamo visto, ma potrebbe avvenire».
Cosa pensa della linea del governo italiano di chiudere i porti?
«Questo è un altro tema, completamente diverso. Io sono risentito con gli europei, perché pensano solo a due questioni: migrazioni e terrorismo. In Libia ci sono 800.000 stranieri che non hanno mai cercato di attraversare il mare. Poche migliaia ci hanno provato, e sono nei centri di detenzione. Ma cosa facciamo con gli 800.000 che non hanno mai cercato di imbarcarsi? Non è vero che ogni non libico in Libia sogni Napoli. Non è vero. La soluzione migliore per il futuro è avere un’autorità unica e legittima in Libia. Tutti gli altri metodi non funzionano. Gli europei dovrebbero concentrarsi su questo, invece di fare altro».
Come giudica la telefonata del presidente Trump ad Haftar?
«Ha confuso la lettura dei libici della posizione americana».
L’Isis sta rialzando la testa?
«Abbiamo avuto quattro attacchi in meno di due mesi, due a Ghodwa, uno a Sebha e uno a Zella. In totale 17 morti, 10 feriti e 8 rapiti. Daesh sfrutta la guerra per occupare il vuoto creato al sud, ma probabilmente ha cellule dormienti a Tripoli e altrove».
È una minaccia anche per l’Europa?
«Sì. Prima per la Libia, ma anche per l’Europa. Mi preoccupa poi che migliaia di persone potrebbero abbandonare la città di Idlib, in Siria, perché la Libia sarebbe un rifugio attraente».
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