Riprendiamo dal SOLE24ORE/Domenica di oggi, 19/05/2019, a pag.21 con il titolo "Addio a Baghdad antica casa degli ebrei" la recensione di Giulio Busi al romanzo di Elena Loewenthal "Nessuno torna a Baghdad "(Bompiani)
Giulio Busi
Elena Loewenthal
E' fatale che, in un romanzo popolato di molti volti, ci si affezioni a uno in particolare. Un personaggio più attraente degli altri, che ci accende la fantasia, e che ci piacerebbe molto poter incontrare dal vivo. "Affezionarsi" non è la parola giusta. Se il racconto prende, si finisce per innamorarsi. Sulla carta, naturalmente, ma chi lo dice che siano amori meno duraturi di quelli in came e ossa? Per certi libri ben riusciti, simili amori possono durare per anni, magari per tutta la vita. La mia preferita è Violette. Così bella, con quegli occhi «buie celesti». E soprattutto, così indolente «Violette saliva di malavoglia sulla terrazza della casa, perché di malavoglia si alzava dalla montagna di cuscini su cui dormicchiava pertutto il giorno nel vano tentativo di sognare qualcosa». La Baghdad di Elena Loewenthal, quella dove, fin dal titolo, «nessuno torna più», non è solo il luogo della memoria. È unospazio di solenne lentezza, dove il tempo segue, quasi inerte, la maestosa antichità di pomeriggi smisurati, tutti protesi verso il tardivo, liberatorio spegnersi della vampa del sole. I protagonisti, che cominciano a sgranarsi fin dalle prime pagine, sono fatti di un materiale particolare. Certo, godono di molti privilegi ma sono anche gravati da un senso di precarietà, di fine imminente. Appartengono a una famiglia ebraica alto-borghese, solidamente inserita nella vita dell'impero ottomano prima e in quella del fragile Regno iracheno poi. Il loro è però uno statuto sempre più precario, in cui benessere e agi si uniscono al senso di una svolta che si avvicina inesorabile. Da quanto tempo gli ebrei vivono in Mesopotamia? Da due millenni? No, da molto di più, almeno dal primo esilio, quando sono arrivati al seguito del conquistatore neo-babilonese. Sembra impossibile che una storia così imponente finisca. Ma è tempo di rivalsa araba, e il colonialismo, diretto e indiretto, ha turbato equilibri consolidati. I sospetti e le violenze si fanno sempre più vicini. Tutto sta per finire, ed è forse per questo che Violette rimane impressa nel cuore: poco più che bambina eppure già in attesa di un marito, lei che sperpera le ore come fossero petali di un fiore. Loewenthal ha il grande talento della dilazione. Tutto dovrebbe correre veloce verso un precoce epilogo. E in effetti, i tempi della prima, grande persecuzione antiebraica del 194i, il Farhud, battono sincopati e crudeli. La vita domestica, i sogni e le rivalità delle due sorelle, Flora e Violette, e la maturità del maschio, Ameer, vengono però centellinati con la giusta calma. Lo sappiamo tutti, l'adolescenza e la prima giovinezza hanno i loro segreti, un loro sbocciare che, mentre lo si vive, sembra terribilmente lento. Il maggiore fascino di questo racconto esotico, ambientato tra paesaggi che ben pochi di noi conoscono per averli visti di persona, è proprio la sospensione temporale. Tutto vi si sgrana come se la verde stagione della vita, quella delle attese e delle promesse, potesse durare per sempre. Non è un caso se, dopo avere dovuto abbandonare la Baghdad dei loro anni giovanili, tutti o quasi i membri della saga vivano esistenze lunghissime, e quasi si convincano d'essere immortali. «Addio a Baghdad, che fino a poche ore prima era stata il suo mondo esclusivo: un mondo che pareva sconfinato, come se potesse essere fatto soltanto di strade e vicoli, del fiume che passava lento, delle case chiare e scure, della luce che d'inverno era trasparente e nei giorni caldi della lunga estate diventava opaca, torbida». Nella stoffa del racconto, di simili addii ne sono cuciti parecchi, uno per ogni personaggio. È vero che a Baghdad non si tornerà mai più. Ma è anche vero che nessuno se n'è mai andato del tutto. Non dentro di sé, non nei profumi, non nell'acqua del Tigli, dall'effluvio dolciastro, non in quel destino, così ebraico, di ricordare un luogo col cuore, di giorno in giorno. E di lasciarlo di nuovo, ogni giorno, con la mente.
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