Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 16/05/2019, a pag. 3 la recensione di Matteo Moca a "Evacuazione", di Raphael Jerusalmy.
La copertina (La nave di Teseo ed.)
Il termine “distopia” suona oggi quasi stucchevole, considerata la frequenza con la quale viene pronunciato e quanto spesso viene utilizzato per etichettare i romanzi più diversi: eppure è evidente come esista un grande interesse intorno a questo genere e a confermarlo arriva ora anche il romanzo di Raphaël Jerusalmy, Evacuazione, pubblicato da La nave di Teseo con la traduzione di Fabrizio Ascari. In questo libro l’autore riesce a costruire un immaginario che, assecondando i migliori esempi del genere, descrive una realtà angosciante, soffocante e altra seppure non troppo distante dalla nostra, con vaghi richiami al McCarthy di La strada. La vicenda è ambientata a Tel Aviv, dove l’autore vive e vende libri antichi, messa a ferro e fuoco dai bombardamenti di una guerra di cui non si conosce nulla, se non che tutta la popolazione ha ricevuto l’ordine di evacuare le proprie case per rifugiarsi in campi di accoglienza.
Raphael Jerusalmy
Così i protagonisti, l’anziano Saba, il nipote Naor e la sua fidanzata Yaël, si preparano ad abbandonare, forse per sempre, le loro abitazioni, concreti obiettivi del bombardamento nemico. Ma proprio all’ultimo momento Saba sguscia fuori dall’autobus che avrebbe dovuto portarli via e così fanno Naor e Yaël per seguirlo: i tre personaggi restano allora nella metropoli deserta, padroni del nulla che si apre intorno a loro, abbandonati da tutti e alla ricerca di viveri e di ogni possibile forma di sostentamento. Intorno a questa tutto sommato esile trama, che infatti mostra talvolta alcune lievi debolezze, si apre la scrittura di Jerusalmy, che è, anzitutto, un inno d’amore nei confronti della città israeliana. “Questo romanzo è stato scritto a Tel Aviv, a un tavolino all’aperto del café La Consolation et Demie, vicinissimo a viale Rothschild” scrive nella nota l’autore e non è difficile immaginare il suo sguardo che svuota la brulicante città che si apre davanti ai suoi occhi per indagarne forme e situazioni sconosciute (“Tre appartamenti liberi nel cuore di Tel Aviv! Una cosa mai vista! Sul piano immobiliare”, sentenzia divertito ad un certo punto Naor). Tra queste pagine ci sono poi ovviamente momenti dolorosi e sofferenti, quelli della rappresentazione di una città in tempo di guerra, immagini in cui però lo scrittore non indugia mai, se non per metterle a confronto con una vitalità positiva che ne contrasta la natura, come quando, dopo il bombardamento e il conseguente crollo dell’Hotel Intercontinental, i fumi della guerra si mischiano con l’aria vitale e salubre che proviene dal mare: “Si sentiva puzzo di bruciato ma non di arma chimica. C’era anche un profumo salmastro trasportato da una leggera brezza dal mare”. Protagonista assoluto di questo romanzo è il nonno Saba, un uomo anziano, malato, che fugge dall’autobus perché non ha il coraggio di salutare per l’ultima volta la sua città e che trascina nel pericolo i giovani ragazzi, adesso colpevoli di aver disubbidito agli ordini dell’esercito. Saba porterà sempre con sé un libro, Molloy di Samuel Beckett, che assurge forse a simbolo assoluto della sua natura più profonda, soprattutto per il suo soffermarsi sui ricordi d’infanzia perduti, in decisa opposizione verso la malinconia di Saba per una memoria che pian piano si assottiglia sempre più e per la morte che si avvicina inesorabilmente. Nelle azioni dell’anziano conoscitore di ogni via della città, nel suo muoversi ondeggiando tra i vicoli, i giovani Naor e Yaël impareranno a rintracciare una ricerca instancabile di innocenza, la forza del desiderio di continuare a vivere e una resistenza decisa alla distruzione e al dolore che la guerra porta con sé.
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