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La Repubblica Rassegna Stampa
15.05.2019 Eurovision & Gaza: su Repubblica disinformazione scatenata contro Israele
Negli articoli di Vincenzo Nigro, Davide Lerner

Testata: La Repubblica
Data: 15 maggio 2019
Pagina: 12
Autore: Vincenzo Nigro - Davide Lerner
Titolo: «Israele, Madonna non cede: 'All’Eurovision canto la pace' - Nei campi di Gaza: 'Meglio fuggire'»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 15/05/2019, a pag.12 con il titolo "Israele, Madonna non cede: 'All’Eurovision canto la pace' " il commento di Vincenzo Nigro; a pag. 13, con il titolo "Nei campi di Gaza: 'Meglio fuggire' ", il commento di Davide Lerner.

L'articolo di Vincenzo Nigro è scritto con un tono ostile a Israele. I fatti sono complessivamente riportati, ma il lettore viene convinto dalla lettura che Israele e i terroristi arabi palestinesi siano da porre sullo stesso piano e siano ugualmente responsabili del conflitto.

Peggio di Nigro fa Davide Lerner, il cui articolo è un megafono ai terroristi di Hamas. La reponsabilità delle condizioni difficili in cui vivono i cittadini di Gaza è rovesciata su Israele, sebbene lo Stato ebraico abbia abbandonato completamente la Striscia di Gaza da 14 anni. Lerner utilizza tutti i peggiori stereotipi tipici della propaganda anti-Israele, a partire dalla descrizione delle condizioni dei "disperati della Striscia". Di ogni difficoltà viene data la responsabilità a Israele. Peggio di Moni Ovadia, che è tutto dire.

Ecco gli articoli:

Vincenzo Nigro: "Israele, Madonna non cede: 'All’Eurovision canto la pace' "

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Vincenzo Nigro

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Madonna ha deciso, e non torna indietro: ieri sera in Israele è partito l’Eurovision Song Contest, il festival delle canzoni europee. La gara terminerà sabato, e lei canterà due canzoni, durante un intervallo, come ospite speciale fra tutti i concorrenti. «Non smetterò di suonare musica per soddisfare l’agenda politica di qualcuno e non smetterò di esprimermi contro le violazioni dei diritti umani ovunque nel mondo», ha detto Madonna rispondendo a chi le chiedeva di boicottare il festival che quest’anno si tiene in Israele perché l’anno scorso è stato vinto dall’artista israeliana Netta Barzilai. «Ho la speranza — ha aggiunto — che presto si riesca a rompere questo terribile ciclo di distruzione e creare un nuovo percorso verso la pace». La gara è iniziata ieri sera, tutta l’area dell’Expo di Tel Aviv è stata blindata e protetta perché quest’anno il festival è diventato un vero e proprio obiettivo militare: dieci giorni fa, quando Hamas e la Jihad islamica per tre giorni hanno lanciato missili da Gaza sul sud di Israele, tutto era iniziato con un appello della Jihad (legata all’Iran) a bloccare questo festival «strumento di propaganda del regime sionista per cancellare il messaggio del popolo palestinese ». Il governo Netanyahu ha puntato molto sul festival: cinque milioni di dollari per la sicurezza, ma anche tre milioni per la comunicazione, per pubblicità televisiva e sul web, con la creazione anche di siti che servono a contrastare chi invita al boicottaggio di Israele. A meno di sorprese violente, sempre possibili (tipo un nuovo attacco di razzi da Gaza, il che questa volta scatenerebbe una vera guerra), l’Eurovision si trasformerà in qualche modo nel trionfo mediatico di Bibi Netanyahu appena rieletto alla guida del governo. In questi ultimi mesi il premier, nonostante i suoi guai giudiziari, è riuscito a migliorare la sua posizione. I regali politici che gli ha fatto Donald Trump sono stati preziosi in campagna elettorale: lo spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, poi il riconoscimento della sovranità di Israele sulle alture del Golan strappate da Israele alla Siria ma non riconosciute come israeliane dalle Nazioni Unite. Per Netanyahu sono “vittorie” contestate: nel senso che il sostegno di Trump è importantissimo, ma il resto del mondo segue con opportunismo (vedi i grandi paesi arabi sunniti) o proprio con freddezza il consolidamento di Israele come nazione uguale fra uguali. Un esempio è quello dello spostamento delle ambasciate da Tel Aviv a Gerusalemme, che dovrebbe essere capitale di Israele ma anche di uno stato palestinese quando mai si raggiungerà un accordo di pace. Un anno fa, dopo la decisione degli Stati Uniti, molti paesi avevano promesso che avrebbero seguito Trump e spostato la loro ambasciata. Per ora si è mosso solo il Guatemala. Il ministro per l’Edilizia Yoav Gallant aveva invitato addirittura il Comune di Gerusalemme a preparare un «quartiere per le ambasciate ». Per ora non serve: adesso Israele fino a sabato spera di occuparsi soltanto di canzoni e musica europea. Sempre che Hamas e Jihad non ci ripensino e decidano di interrompere la festa dei loro vicini.

 

 

Davide Lerner: "Nei campi di Gaza: 'Meglio fuggire' "

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Davide Lerner

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Campo profughi Bureij (striscia di Gaza) — Le gigantesche casse legate con una corda sul pick-up di Hamas rimbombano a tutto volume: «È il giorno della nakba (la tragedia palestinese della sconfitta del 1948, ndr.)», dice una voce solenne, mentre la macchina fa il giro del campo profughi di Bureij, nella striscia di Gaza. «Ci ritroviamo tutti alla frontiera domani, è disponibile servizio autobus per la manifestazione », scandisce esaltata. All’imbrunire, dopo il canto del muezzin, famiglie allargate e amici si sono riunite per l’iftar, il grande pasto che rompe il digiuno del Ramadan. I commensali ascoltano il richiamo e si domandano: «Tu di che villaggio sei?». Persino Oussam Jabber, ventiquattrenne studente di ingegneria alla Islamic University di Gaza City, mai stato in vita sua fuori dalla striscia, risponde senza esitare: «Mughar, vicino all’odierna Yavne». I suoi amici nominano prontamente i villaggi dei nonni: a Gaza quasi tre quarti della popolazione è di figli e nipoti di profughi. Fra le botteghe del campo i muri sono ricoperti di disegni che inneggiano alla resistenza: nel cielo ormai buio si intravedono le luci intermittenti di un elicottero militare israeliano. «La nostra anima non procede in avanti, solo in cerchi. E ci condanna a cadere e ricadere sempre nelle stesse buche». Torna in mente la frase dello scrittore israeliano Eshkol Nevo attraversando l’infinita serie di check-point e la gabbia lunga quasi un chilometro che conduce da Israele nella piccola Sparta creata da Hamas nella striscia di Gaza. Esattamente un anno fa decine di migliaia di israeliani invadevano piazza Rabin a Tel Aviv per osannare Netta Barzilai, la vincitrice del festival di musica pop di Eurovision. A nessuno sembrava importare della carneficina consumatasi poche ore prima a Gaza: sessanta morti nella giornata peggiore delle proteste di frontiera, in corrispondenza con l’apertura dell’ambasciata americana a Gerusalemme. Oggi, un anno più tardi, l’industria edonistica di Tel Aviv si scatena per la nuova edizione dell’Eurovision, e una Gaza ancora più soffocata e impaurita prepara il settantunesimo anniversario della nakba. «Ci saranno manifestazioni in cinque diversi punti della frontiera», dice Moein Abu Oakal, un ufficiale di Hamas che fa parte del comitato organizzativo. «L’occupazione si illude che i vecchi muoiano e i giovani dimentichino», dice, parlando del presunto “diritto al ritorno” degli eredi dei 700mila fuggitivi palestinesi del 1948. «Dal tetto di casa mia a Beit Lahia vedo i coloni di Zikim occupare il villaggio di Herbia, da dove venivano i miei genitori: ho le carte inglesi e ottomane che comprovano la proprietà di quella terra. I diritti non si lavano via col tempo » . Alla marcia non ci sarà però Jamal, 19 anni, un ragazzo con gli occhi vivaci seduto in attesa sulla sua valigia al valico di Rafah, fra la striscia e l’Egitto. «Ho deciso di andarmene e non tornare più, la vita a Gaza è diventata insopportabile», dice, «la situazione è pessima, non c’è lavoro, voglio studiare ingegneria al Cairo e rimanere lì», spiega, aggiustandosi i capelli col gel. Non potendosi permettere di corrompere gli ufficiali, il suo permesso di uscita è scivolato sulla lista d’attesa per dieci mesi, ma c’è chi lascia Gaza anche in pochi giorni. Da quando l’Egitto ha aperto il confine lo scorso anno sono decine di migliaia i palestinesi che hanno deciso di andare via. «Non si tratta ancora di un esodo, ma è senza dubbio un nuovo fenomeno », dice un rappresentante della Ue a Gerusalemme. Passeggiando fra i poster di martiri e combattenti che ricoprono tutta la striscia di Gaza anche Riwad e Bashar Ashour, 38 e 45 anni, fanno sapere di avere messo la loro casa in vendita. È spaziosa, con vista mare nel quartiere di Rimal, il più di lusso di Gaza City. Prezzo: 80.000 dollari. «Faccio l’insegnante di fisica al liceo, ma da quando il ministero dell’Istruzione è nelle mani di Hamas non posso essere promossa e vengo trattata in maniera orribile», racconta Riwad. «La vita qui è miserabile, c’è sempre la guerra, voglio andare in Turchia», dice. L’emigrazione ha colpito anche la comunità cristiana, che contava 3000 fedeli nel 2009 ed è scesa ormai a poco più di mille: «Per i cristiani è più facile avere permessi d’uscita e quindi emigrare», spiega George Antone nella graziosa chiesa cattolica di Zeitoun, un quartiere di Gaza City. La striscia di Gaza si percorre in un’ora e mezza a piedi da Est a Ovest e in un’ora scarsa di macchina da Nord a Sud. Dappertutto gli abitanti ricordano con spavento l’escalation di dieci giorni fa, ma mantengono la vitalità considerata tipica dei palestinesi “Ghazawi”. «Alle 5.30 di sabato 5 maggio ricevo una chiamata. Un israeliano mi dice: evacuate il palazzo perché fra pochi minuti bombardiamo», racconta Mohamad Doghmash di fianco a un edificio di molti piani distrutto a Gaza City. «Avevo negozi e appartamenti ma non ho potuto portare via nulla: dopo il missile di avvertimento, è arrivato il bombardamento vero e proprio », dice. Non è andata meglio a Hussam El-Haddad, 40 anni, che ha avuto la cattiva idea di aprire un negozio di vestiti e giocattoli per bambini in un palazzo in cui c’erano anche degli uffici della Jihad islamica. Gruppo armato più attrezzato dopo le Brigate Izz ad-Din al-Qassam, il braccio armato di Hamas, la Jihad è spesso presa di mira dai raid israeliani. A poca distanza dall’ex negozio di Hussam c’è Palestine Square, il cuore pulsante di Gaza City. I due monumenti dello slargo sono un carro armato israeliano risalente alla guerra del 2008-2009, con un grande pugno chiuso di metallo simbolo di resistenza, e poi una fenice scolpita, simbolo di rinascita. La Grande Moschea Omari, incastonata coi suoi tappeti blu nel vecchio mercato, offre alcuni dei rari scorci graziosi della striscia. Tutto intorno la città vecchia è affollata di persone che fanno compere in vista degli iftar. Salim Al-Rayes tiene un negozio di vecchi libri, giornali da collezione e oggetti antichi: «Si vede un turista una volta al mese, con le frontiere sigillate c’è poco da fare». dice. Sulle trattative fra Israele e i militanti si mostra scettico: «Il peggio deve ancora venire». Per ora l’unico risultato concreto, a parte la tregua, è stato l’arrivo degli aiuti finanziari del Qatar. I poveri di Gaza City si spintonano nelle code alle poste per ritirare 100 dollari ciascuno: un aiuto prezioso in uno dei posti più poveri del pianeta.

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