sabato 23 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






La Stampa Rassegna Stampa
15.05.2019 Usa: con Teheran serve la linea dura
Cronache di Giuseppe Agliastro, Paolo Mastrolilli

Testata: La Stampa
Data: 15 maggio 2019
Pagina: 6
Autore: Giuseppe Agliastro - Paolo Mastrolilli
Titolo: «Putin aspetta l’invito di Trump. Con Pompeo scontro sul Medio Oriente - Così la Casa Bianca si prepara alla guerra: 'Pronti 120 mila soldati per punire l’Iran'»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 15/05/2019 a pag. 6 con il titolo "Putin aspetta l’invito di Trump. Con Pompeo scontro sul Medio Oriente" il commento di Giuseppe Agliastro; a pag. 7, con il titolo "Così la Casa Bianca si prepara alla guerra: 'Pronti 120 mila soldati per punire l’Iran' ", la cronaca di Paolo Mastrolilli.

Ecco gli articoli: 

Immagine correlata
Donald Trump

Giuseppe Agliastro: "Putin aspetta l’invito di Trump. Con Pompeo scontro sul Medio Oriente"

Immagine correlata
Giuseppe Agliastro

Prove di dialogo tra Russia e Stati Uniti. Il segretario di Stato Usa Mike Pompeo e il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov si sono incontrati ieri a Sochi per discutere delle più urgenti questioni della politica mondiale. I colloqui sono proseguiti in serata con Vladimir Putin. Ma nonostante i sorrisi e le promesse di migliorare significativamente i tesissimi rapporti bilaterali, restano abissali le differenze tra il Cremlino e la Casa Bianca sui principali temi dell’agenda internazionale. Dal programma nucleare iraniano al Venezuela, dalla guerra in Siria a quella in Ucraina: su moltissimi fronti le posizioni di Mosca e Washington sono agli antipodi. Su altri potrebbe però essere possibile un compromesso. «Se oggi sono qui è perché il presidente Trump è deciso a migliorare le nostre relazioni», ha affermato Pompeo dopo aver stretto la mano a Lavrov. Parole gradite da Putin. Il leader russo è arrivato in ritardo all’incontro col segretario Usa perché era impegnato a visionare le nuove armi del suo esercito. Un messaggio implicito a Washington. Poi, parlando con Pompeo, si è però detto convinto che Trump voglia davvero migliorare i rapporti tra Russia e Usa. Forse i due capi di Stato avranno occasione di discuterne a fine giugno: i russi lasciano infatti la porta aperta a un possibile vertice tra Putin e Trump a margine del G20 a Osaka. «Se riceveremo una richiesta risponderemo in maniera positiva», ha assicurato Lavrov. Pompeo è in Russia per la prima volta come segretario di Stato, ma la sua visita è soprattutto il primo incontro ad alto livello tra Mosca e Washington dopo la pubblicazione del rapporto Mueller sul Russiagate. Il procuratore ha concluso che la Russia ha interferito nelle presidenziali americane del 2016, ma non ha trovato prove inconfutabili sul fatto che la campagna elettorale di Trump abbia cospirato col Cremlino per far salire il tycoon alla Casa Bianca. Mosca ha colto la palla al balzo. «La Russia - ha affermato Lavrov - spera che dopo la pubblicazione del rapporto Mueller le accuse di collusione, del tutto false, possano scemare e il rapporto con gli Usa possa essere ricostruito». Anche Putin è soddisfatto e loda Mueller definendo la sua indagine «obiettiva». Pompeo non si sbilancia. Definisce «inaccettabili» le ingerenze russe nel voto americano e lancia un monito a Mosca: «Se i russi interferiranno nelle presidenziali del 2020 le nostre relazioni saranno ancora peggiori di quanto non siano adesso».

Gli occhi del mondo per ora sono puntati sul Medio Oriente. Pompeo cerca di placare gli animi assicurando che gli Usa non vogliono una guerra con l’Iran. Ma la tensione nella zona resta palpabile dopo l’annunciato invio di una flotta da guerra Usa nel Golfo. A gettare ulteriore benzina sul fuoco è il presunto piano americano di mandare fino a 120.000 soldati in Medio Oriente nel caso in cui Teheran dovesse attaccare le forze americane o accelerare sulle armi nucleari. «Speriamo che si tratti di voci infondate» e che «prevalga la ragione», è stato il significativo commento di Lavrov dopo tre ore di faccia a faccia con Pompeo. Sul Venezuela il muro contro muro non lascia spazio a una soluzione condivisa. Il segretario di Stato americano ha ribadito che Maduro deve lasciare il potere e la Russia deve smettere di sostenerlo. Ma Lavrov gli ha risposto a tono condannando l’appoggio di Washington all’oppositore Juan Guaidó.
Russia e Usa si dicono però pronti a riprendere il dialogo sul disarmo e sulla questione nucleare nordcoreana. Dopo il tracollo del Trattato Inf che vieta i missili nucleari a breve gittata, Lavrov si è detto ottimista sull’estensione del Trattato New Start che limita le armi di distruzione di massa e che scade tra un anno e mezzo.

Paolo Mastrolilli: "Così la Casa Bianca si prepara alla guerra: 'Pronti 120 mila soldati per punire l’Iran' "

Immagine correlata
Paolo Mastrolilli

Immagine correlata
Pasdaran iraniani

Un’armata composta da 120.000 uomini, simile nei numeri a quella che nel 2003 aveva invaso l’Iraq, per punire l’Iran se colpisse gli interessi americani o dei loro alleati. È il piano più aggressivo che il Pentagono ha presentato alla Casa Bianca, durante un vertice di guerra rivelato dal New York Times. Trump ha liquidato la notizia come «fake news», e l’ayatollah Khamenei ha detto che non ci sarà un conflitto con gli Usa, ma il timore di una escalation sta dominando il dibattito tra gli analisti.
Secondo il Times, tutto è cominciato quando il 3 maggio scorso l’intelligence americana e alleata ha rivelato movimenti degli apparati di sicurezza iraniani, che facevano supporre un cambio di strategia finalizzato a preparare attacchi. Forse una reazione alle pesantezza delle nuove sanzioni Usa, che stanno mettendo in ginocchio l’economia di Teheran, in particolare col tentativo di bloccare tutte le esportazioni di petrolio. Il 5 maggio il consigliere per la sicurezza nazionale Bolton ha pubblicato un comunicato, in cui annunciava lo schieramento nella regione del Golfo della portaerei Lincoln, più una task force di bombardieri B52 e una batteria di missili Patriot. Lo scopo era tenersi pronti a reagire con la massima forza a «ogni attacco contro interessi degli Stati Uniti, o dei nostri alleati». Giovedì scorso quindi Bolton ha convocato una riunione alla Casa Bianca, alla quale hanno partecipato il ministro della Difesa ad interim Shanahan, il capo degli Stati Maggiori Riuniti Dunford, la direttrice della Cia Haspel, e il direttore dell’intelligenc nazionale Coats. Shanahan ha introdotto i piani aggiornati per contrastare l’Iran, e Dunford è sceso nei dettagli, offrendo varie ipotesi. La più aggressiva prevedeva l’invio di 120.000 soldati nella regione, fra truppe di terra, marinai e piloti. Non considerava un’invasione di terra, ma le dimensioni dello spiegamento erano simili a quello usato nel 2003 per rovesciare Saddam. Il Pentagono ha sempre pronti i piani di intervento in ogni potenziale teatro di guerra, come il Venezuela, e quelli per l’Iran includono anche l’opzione “Nitro Zeus”, ossia un attacco cibernetico per paralizzare il paese senza bombardarlo. La riunione alla Casa Bianca però ha suscitato preoccupazione, anche perché è nota la propensione di Bolton per un intervento militare contro la Repubblica islamica, che aveva sollecitato anche all’epoca dell’amministrazione Bush.

I nemici smentiscono
Trump ieri ha smentito: «Penso sia fake news, ok? Lo farei? Assolutamente. Ma non abbiamo piani. E se li avessimo fatti, manderemmo molti più soldati». Khamenei ha risposto così in tv: «Non ci sarà alcuna guerra. La nazione iraniana ha scelto il sentiero della resistenza». Il ministro degli Esteri Zarif ha però accusato «individui radicali nell’amministrazione e nella regione che perseguono politiche pericolose», ad esempio attribuendo all’Iran i recenti attacchi contro due petroliere nel Golfo, mentre il portavoce all’Onu Alireza Miryousefi ha detto che «il B team», cioè Bolton, il premier israeliano Netanyahu, il principe saudita Mohammed bin Salman, e quello degli Emirati bin Zayed, sta attivamente cercando di provocare un conflitto.
Trump ha sempre detto che tutte le opzioni sono sul tavolo, ma quando aveva nominato Bolton come suo consigliere, lo aveva avvertito che non gli avrebbe consentito di trascinarlo in una guerra. In campagna elettorale il futuro presidente aveva definito l’invasione dell’Iraq come una delle decisioni più stupide mai prese da Washington, e ha poi premuto per il ritiro da Siria e Afghanistan. L’Iran però ha un peso geopolitico diverso, e contrastarlo è al centro della strategia mediorientale di Trump.

L’incidente è dietro l’angolo
Secondo un’analisi della Rand Corporation, l’obiettivo degli Usa è forzare la Repubblica islamica a siglare un nuovo accordo, mentre quello di Teheran è aspettare la fine di questa amministrazione. Il rischio di un errore però è grande, perché non ci sono più le comunicazioni dirette come nel 2016, quando alcuni marinai americani furono arrestati in acque iraniane. Oltre alla Lincoln, gli Usa hanno inviato uno squadrone di F35 nella base al Dhafra degli Emirati, ed operano in Afghanistan, Iraq e Siria, nella base al Tanf. Le unità di mobilitazione popolare create dall’Iran in Iraq in funzione anti Isis non lavorano più con gli americani, perché il Califfato è sconfitto, e l’incidente è dietro l’angolo. Bolton poi ha esteso la linea rossa alla protezione degli alleati, e quindi in teoria anche il lancio di un missile da parte degli Houthi verso Riad può provocare un conflitto.

Per inviare alla Stampa la propria opinione, telefonare: 011/ 65681, oppure cliccare sulla e-mail sottostante

 


lettere@lastampa.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT