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Il Foglio Rassegna Stampa
10.05.2019 Woody Allen 2: ecco la vita e la carriera di un genio
La racconta in tre puntate con grande partecipazione Mariarosa Mancuso

Testata: Il Foglio
Data: 10 maggio 2019
Pagina: 4
Autore: Mariarosa Mancuso
Titolo: «Woody Allen, vita di un genio»

Riprendiamo dal FOGLIO dei giorni 08, 09, 10/05/2019 con il titolo "Woody Allen, vita di un genio" le analisi sulla vita e la carriera di Woody Allen, di Mariarosa Mancuso.

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Woody Allen

Parte 1

A17 anni guadagnava più dei suoi genitori messi insieme. Fu in quel momento che decise di cambiare nome: da Allan Stewart Konigsberg a Woody Allen, più adatto a a un giovanotto che per mestiere vendeva battute. Papà e mamma erano immigrati di seconda generazione, dopo un passaggio nel Lower East Side vivevano a Brooklyn, rispettosi delle tradizioni anche se la famiglia era insolitamente poco numerosa, due figli soltanto: il nostro eroe – che dagli otto ai tredici anni frequentò una scuola ebraica e fece il suo bar mitzwah – e una sorella più piccola, Letty. Nonno Isaac era stato un commerciante di caffè, abbastanza benestante da permettersi un palco al Metropolitan. Papà Martin, travolto dalla crisi azionaria del 1929, vendeva burro e uova in un mercato di Greenwich Street (secondo altre fonti lavorava come orafo, o forse guidava un taxi, o faceva il cameriere: la confusione regna). Quando si conobbero, mamma Nettie lavorava come contabile, forse da un fiorista. Da sposati litigavano molto per i soldi e non si occupavano granché del rampollo e della sua educazione, affidata perlopiù alle vicine di casa. E al cinema, da solo o con una cugina più grande. Battesimo dello schermo con “Biancaneve e i sette nani”, poi i fratelli Marx e una bella manciata di divi dell’epoca: Fred Astaire, Humphrey Bogart, Gary Cooper, James Stewart. Inutile contare su Woody Allen per un racconto nostalgico e commosso dell’infanzia che-mai-più-ritornerà. Non ci sarà nell’autobiografia che nessuna casa editrice americana vuole pubblicare, ancor prima di averla letta (solo dieci anni fa, se la sarebbero contesa in un’asta miliardaria). Non se ne trova traccia nei film del regista. Anzi, in “Zelig” troviamo storielle così: “Mio fratello mi picchiava, mia sorella picchiava mio fratello e me, mio padre picchiava mia sorella, mio fratello e me, mia madre picchiava mio padre, mia sorella, mio fratello e me, i vicini di casa picchiavano la mia famiglia, l’altro isolato picchiava i vicini di casa che picchiavano la mia famiglia che mi picchiava…”. Nelle interviste, il tono cambia e si trasforma in un idillio: “Giocavo bene a tutti i giochi. Non ero povero né affamato né negletto. Media borghesia, ben nutriti, ben vestiti e sistemati in una bella casa”. Ha il sapore di una ripicca, si era nel 1969, e ormai moriamo dalla voglia di sapere dall’interessato come suona l’ultima riscrittura. Lo facciamo tutti, con il passato, neanche Woody sfuggirà ai ricami della memoria. La vera e ormai anziana mamma Konigsberg fa una comparsata nel documentario di Barbara Kopple “Wild Man Blues”, girato durante il tour europeo del clarinettista Woody Allen con la New Orleans Jazz Band, nel 1996. Poche le tappe in Italia, una a Venezia con il sindaco Massimo Cacciari (che l’anno dopo celebrerà il matrimonio con Soon-Yi Previn). Una a Milano dove il regista sospetta che l’inserviente dell’albergo venuto a controllare la suite presidenziale con piscina privata sia un pericoloso maniaco. Una a Bologna dove sono i portici a mettere ansia. Oltre ai sindaci: “I miei preferiti sono quelli che non parlano inglese”, sussurra a Soon-Yi che lo accompagna. Di ritorno a New York, i genitori Martin e Nettie vengono convocati per lo smistamento dei regali ricevuti, un obbrobrio di targhe e simboli cittadini tridimensionali: “A lei piacciono soprattutto gli oggetti in plexiglas”, stuzzica il regista. Meno tenera è l’evocazione materna nel film collettivo “New York Stories”, anno 1989. L’episodio diretto da Woody Allen (gli altri registi che rendono omaggio alla città sono Martin Scorsese e Francis Ford Coppola) ha per titolo “Oedipus Wrecks”, gioco di parole con “Oedipus Rex”–- “Edipo relitto” nella traduzione italiana (quando provavano a tradurre i titoli, e qualche volta ci riuscivano). L’avvocato Sheldon presenta la nuova fidanzata Lisa alla madre impicciona, perfetto esemplare di yiddishe mame, che proprio non approva: la ragazza non è ebrea, e ha già un figlio. “Se mia madre sparisse avrei risolto i miei problemi”, si lascia scappare l’avvo - cato che non la regge più. Detto e fatto, durante uno spettacolo di magia (sono usciti in quattro, con il ragazzino), il prestigiatore fa entrare la madre in una cassa, la trafigge con le frecce, riapre la cassa e della mamma assillante non c’è traccia – il teatro declina subito ogni responsabilità. Dopo qualche giorno tranquillo, la madre riappare nel cielo di New York, commentando la vita privata del figlio. Woody Allen a 17 anni guadagnava più dei genitori scrivendo battute per conto terzi. L’idea di fare il regista e l’attore, o anche solo di salire sul palco per recitare le sue battute, era ancora lontana. Siamo all’inizio degli anni Cinquanta, andava ancora al liceo e già vendeva battute a giornali che ne avevano bisogno per aggiungere un po’ di brio alle proprie rubriche – non male come divisione dei compiti, il lavoro intellettuale non è sempre stato pagato male come adesso. Poi passò agli show televisivi come “The Tonight Show” e “Your Show of Shows” con Sid Caesar, e la paga salì a 1.500 dollari la settimana – i colleghi di lavoro erano Mel Brooks e Neil Simon, quasi dieci anni più grandi di lui. Abbastanza per aver voglia di mollare la Nyu a cui si era iscritto, e di sposarsi con Harlene Rosen. Era il 1956, lei aveva 17 anni e lui 21. Il matrimonio non funzionò, ebbe però un rissoso seguito di battute (non si butta via niente, in questo mestiere) e di querele. Una, riportata anche in un volumetto del 1979 – calcolate voi quanti secoli sono passati in tema di satira e di censura – diceva: “Mi hanno detto che hanno violentato mia moglie. Da come la conosco non deve essere stato uno stupro movimentato”. Non funzionò neppure il trasferimento in California per lavorare al “Colgate Variety Show” (lo sponsor, in questo caso un dentifricio, aveva diritto al nome nel titolo del programma, allora usava così). Funzionarono benissimo invece i nuovi agenti arruolati da Woody Allen, Charles Joffe e Jack Rollins: fu loro l’idea di far debuttare il brillante battutista sul palcoscenico del “Blue Angel”, nell’estate del 1960. L’intenzione era di farlo diventare “The Jewish Orson Welles”: era già un apprezzatissimo scrittore, bisognava aggiungere la regia e l’animale da palcoscenico. I primi tentativi non furono un successo, un conto è scrivere un conto è governare i tempi della stand up comedy, l’uomo solo con il microfono di fronte a un pubblico non sempre ben disposto. Dicono le cronache che al debutto Woody Allen fosse bloccato dall’ansia, quasi pietrificato. Poi imparò a governarla e a trasformare i difetti in virtù, facendo fruttare la (scarsa) presenza fisica, gli occhiali e le nevrosi (sull’altro fronte abbiamo la testimonianza di Harlene la prima moglie e degli amici: Woody si esercitava per ore e ore davanti allo specchio). Nel 1964, mentre il pubblico rideva fino al mal di pancia, a un tavolo del Blue Angel c’erano Warren Beatty, Shirley McLaine, e il produttore Charles K Feldman, che il giorno dopo andò dagli agenti Joffe & Rollins con una proposta: 60 mila dollari per sceneggiare la storia che poi diventerà il film “Ciao, Pussycat”, e segnerà il debutto di Woody Allen nel cinema, anche come attore. E c’erano le ospitate televisive, gli annunci pubblicitari della vodka Smirnoff, le tournée con tappe pagate migliaia di dollari. Calcolate 250 mila dollari di metà anni Sessanta: la seconda moglie era figlia di un commercialista, e le battute cominciarono a farle gli invidiosi. Oltre alla nostalgia dell’infanzia, la biografia di Woody Allen non prevede neanche la dura gavetta, la fame, e i lavori da cameriere o lavapiatti in angosciosa attesa della prima scrittura (che arriva, secondo copione, quando ormai ti stai rassegnando al fallimento). E questo rende ancora più interessante l’autobiografia che prima o poi speriamo di vedere stampata, se non in America almeno nella più tollerante Europa. Gian Arturo Ferrari, forte della sua lunghissima carriera nell’editoria, ha fatto sapere che pubblicherebbe senz’altro il memoir dello scandalo. Come prese la decisione di pubblicare nel 1989 i “Versi satanici” di Salman Rushdie, sfidando la fatwa dell’ayatollah Khomeini. Il traduttore italiano, Ettore Capriolo, fu malmenato e accoltellato. Il traduttore giapponese Hitoshi Igari fu ucciso. Sono passati trent’anni, da un fanatismo all’altro. Dalla geopolitica a cosa esattamente non sappiamo, certo è che non sembra esserci via d’uscita dal risentimento e dalla censura. Già prima di debuttare nel cinema Woody Allen si guadagna il suo posto nella tradizione della comicità ebraica che va da Lenny Bruce a Judd Apatow. “Una Elaine May travestita”, dissero i primi commentatori, con riferimento all’attrice e regista di “E’ ricca, la sposo e l’ammazzo” (la goffa Enrichetta, miliardaria che ingolosisce il cacciatore di dote Walter Matthau), nonché cabarettista assieme al marito Mike Nichols: un gran complimento. Possiamo aggiungere alla lista anche Mrs Maisel, inventata da Amy Sherman-Palladino, figlia del comico Don Sherman, ma perfettamente in linea con la tradizione: apprendistato al Gaslight, nel Greenwich Village; rodaggio negli alberghi sui monti Catskills dove gli ebrei newyorchesi andavano in vacanza e i comici di riferimento facevano la loro stagione estiva. Anche qualche notte in galera per oscenità, dove la casalinga piantata in asso dal marito stringe amicizia con Lenny Bruce. Le battutacce e le provocazioni di Lenny Bruce non sono la comicità prediletta da Woody Allen, il regista lo ha confessato tutte le volte che gliel’hanno chiesto (ha confessato anche di non amare troppo Buster Keaton, e di non essersi mai divertito troppo con Stan Laurel e Oliver Hardy). Per questo si tiene lontano dai doppi sensi e dalle scivolate volgari. Preferisce le croci e le delizie della nevrosi e dalla psicoanalisi: aveva cominciato ad andare dallo strizzacervelli dopo il primo divorzio, sembra che abbia smesso all’epoca della rottura con Mia Farrow (senza neanche scambiare il divanetto con un viaggio a Lourdes). “Ho sognato di essere il collant di Ursula Andress” sta tra i più ruvidi e carnali esempi pervenuti. Assieme alla battuta, riferita a un ballerino: “Aveva una calzamaglia così attillata che rivelava non solo solo il sesso, anche la religione”. Per la parola “pompino” bisogna aspettare “Harry a pezzi” e “La dea dell’amore”, dove ci sono una prostituta e un’attrice porno, e un cazzetto di gomma dentro un acquario. Ma ormai siamo a metà degli anni Novanta e c’era già stata la grande tempesta, nel senso della rottura con Mia Farrow. Più del sesso, trova più interessanti le chiacchiere che gli stanno attorno. Prima e dopo. A volte anche durante, è sempre il momento per tormentarsi. Con la legittima moglie o con l’amante. Ma soprattutto con la ragazza sognata e irraggiungibile: il personaggio di Woody Allen sta nella tradizione dello shlemiel, un giovanotto tra l’inetto e l’imbranato. In versione newyorkese e intellettuale, ma sempre un po’ malmesso. Divorato dai sensi di colpa, ma non abbastanza per non corteggiare le ragazze altrui. Incerto e tentennante un mondo che gli fa ostacolo. E che gli suggerisce Grandi Domande, subito sviate da preoccupazioni domestiche: “Non solo Dio non esiste, ma provate a cercare un idraulico di domenica…”. “Sei un riccio o una volpe?” la domanda fa da tormentone nel film “Mariti e mogli”. Rubata a Isaiah Berlin, “Il riccio e la volpe” era il titolo di un suo libretto, preso da un verso di Archiloco: “La volpe sa molte cose, il riccio ne sa una ma grande”. Divideva il mondo tra i ricci pensatori sistematici, diciamo Nietzsche per capirci, e le curiose volpi che si occupano di molte cose, diciamo alla Montaigne. Tutto questo naturalmente viene applicato alla vita amorosa. Woody Allen non ha mai finito l’universi - tà, pur avendone tentate un paio, ma è uno dei comici più colti in circolazione. Letture fatte più per dovere che per amore, tiene a precisare – “Leggere è una faticaccia”. E solo dopo i diciotto anni, cominciando con Hemingway, Faulkner, Francis Scott Fitzgerald, John Steinbeck. Il corso accelerato di filosofia deve essere arrivato dopo, suggerendo un film come “Irrational Man”, con Emma Stone e Joaquin Phoenix: un apologo un tantino forzato. Sul tema “delitto senza castigo” funzionava molto meglio “Match Point”. Ma sono film recenti, e noi avevamo lasciato il giovane Woody Allen al suo debutto nel cinema.

Parte 2

Prendi i soldi e scappa”, il primo vero film di Woody Allen, nel 1969 comincia a tracciare la mappa di Allenlandia, dove si posizioneranno una cinquantina di titoli. Incluso “A Rainy Day in New York”: la pietra dello scandalo al centro della causa milionaria (68 sono precisamente i milioni contesi) intentata dal regista contro Amazon che ha prodotto il film e lo tiene prigioniero. Uscirà in Italia il 3 ottobre, distribuito da Lucky Red. Magari andrà anche alla Mostra di Venezia: non è detto che i registi perseguitati dalla censura e ospitati in nome della libertà di espressione debbano essere soltanto iraniani o cinesi. Il Festival di Cannes ha perso la sua occasione, eppure Woody Allen era stato applaudito anche quando sfotteva i cinefili della Croisette e dei Cahiers du cinéma. In “Hollywood Ending” (2002) un regista sul viale del tramonto diventa cieco, eppure continua a girare il suo film, che viene stroncato dagli americani ma acclamato come un capolavoro dai critici europei – vale anche come gesto scaramantico, per un regista che ha sempre incassato più a Parigi che nel Midwest. Non sta nella lista “Ciao Pussycat”, scritto e recitato su commissione del produttore Charles K. Feldman e diretto da Clive Donner: “Loro volevano un film ragazze-ragazze sesso-sesso, odiavo tutti e tutti mi odiavano, decisi che non volevo girare altri film se non avessi avuto io l’ultima parola”. E neppure “Che fai, rubi?”, rimontaggio e ridoppiaggio di un film giapponese alla James Bond, dove tutti si affannano attorno alla ricetta di un’insalata con le uova. Per consolarsi dagli intoppi cinematografici, Woody Allen cominciò a lavorare per il teatro, i commediografi sono più rispettati degli sceneggiatori. Aiutò anche il secondo divorzio, da Louise Lasser – dicono i maligni che qualche bega di famiglia si ritrova nella pièce “Provaci ancora Sam”, la vedremo al cinema diretta da Herbert Ross. A celebrare il suo talento di scrittore, fuori dalle scene, era arrivato il New Yorker. Pezzi comici, come la rivista continua a pubblicare, per esempio firmati da David Sedaris, che ha raccontato la sua esperienza da Elfo di Babbo Natale (il peggior mestiere del mondo, pochi soldi e tante piccole pesti). Immaginate, oggi, una prestigiosa rivista letteraria che dà spazio a un comico da palcoscenico. Sembra un sogno, invece è l’effetto di un sistema che sa distinguere i bravi dai cialtroni, senza badare alle etichette. I racconti di Woody Allen arrivano in Italia con la benedizione di Umberto Eco che li segnala e li fa pubblicare da Bompiani, riservandosi la prefazione: “Saperla lunga” esce nel 1973, seguito da “Citarsi addosso” e da “Effetti collaterali”. Un anno prima era uscito il film “Provaci ancora Sam”, con Humphrey Bogart (un sosia di Humphrey Bogart) che dà consigli di corteggiamento all’imbranato shlemiel Woody Allen, fresco di divorzio e attratto da Diane Keaton (per regalo, puzzole di plastica). La faccia, gli occhiali, i calzoni di velluto, i capelli arruffati del comico cominciavano a essere riconosciuti anche dagli spettatori italiani. Ma Eco è già nostalgico, ricorda quando Woody Allen lo conoscevano solo pochi carbonari amici suoi con frequentazioni americane, e lo annuncia nel titolo: “Un everyman per gli happy few”. “Provaci ancora Sam” è spassoso, a vederlo oggi, anche in materia di reperibilità: il marito di Diane Keaton è un maniaco del lavoro, ovunque vada, casa privata o ristorante, chiama per dare il numero di un telefono fisso a portata di mano, dove lo troveranno per la successiva mezz’ora. Mentre la consorte Diane Keaton e il migliore amico Woody Allen discutono su psicofarmaci e sonniferi, in giudiziosa accoppiata con i beveraggi. Nel 2004 i racconti sono stati ritradotti da Daniele Luttazzi: il comico aveva trovato le vecchie versioni – alcune firmate da Cathy Berberian, mezzosoprano a suo agio con Monteverdi e con i Beatles, anche mischiati tra loro, fu per 14 anni la moglie di Luciano Berio – illeggibili, incomplete, scarse nel cogliere allusioni e riferimenti. Sarà che ne ricordiamo ancora qualcuna a memoria, ma non ci erano sembrate tanto brutte. Le battute funzionavano, e anche le parodie letterarie. Per esempio, ai danni di Madame Bovary: un professore di nome Kugelmass, con l’aiuto di un mago, riesce a entrare nel romanzo, a corteggiare Emma e a portarla con sé a New York (dove la signora pretende cene fiori e gioielli, non è uscita dalla provincia mica per niente). La parodia della detective story indaga su un bordello intellettuale dove ci si può intrattenere a pagamento con una fanciulla che parla di “Moby Dick” (“ma il simbolismo è extra”) oppure affittare due belle ragazze che sviscerano l’“Ulisse” di Joyce. Frizzi e lazzi anche sul balletto classico, sui filologi che analizzano le liste della lavanderia dei pensatori celebri, sui tentativi del conte di Sandwich di inventare il panino imbottito come noi lo conosciamo. E un carteggio tra Vincent Van Gogh e il fratello Theo, intitolato “Se gli impressionisti fossero stati dentisti”: “Ho fatto delle radiografie questa settimana che mi parevano piuttosto buone. Degas le ha viste e non gli sono piaciute”. “Prendi i soldi e scappa”, dunque. Visto oggi sembra anticipare “Documentary Now”, la serie (scritta da Fred Armisen, Bill Hader e Seth Meyers del “Saturday Night Live”, che mette in burletta il genere documentario. Da “Siamo qui tra il sibilare dei proiettili…” a “andiamo a vedere chi sono le barbone che vivono in questa villa…”, va forte anche “conosciamo gli esquimesi, venite con me…”. E’ un mockumentary attorno a un rapinatore di banche totalmente inetto, i genitori per la vergogna rilasciano interviste mascherati con gli occhiali e il naso di Groucho Marx, grande passione del regista (non sono i veri Martin e Nettie, il realismo non arriva a tanto, ma sono parecchio somiglianti). Non sa scrivere i biglietti minacciosi – il cassiere legge “siete tutti sotto giro”, lui insiste: “‘Sotto tiro’, non vede che c’è scritto ‘sotto tiro’”?. Per scappare dal carcere intaglia una pistola nel sapone, dipingendola di nero con il lucido da scarpe (il giorno dell’evasione fuori piove). L’altra irruzione nel documentario arriva una quindicina di anni dopo, nel 1983, con “Zelig”. Di tutti i film di Woody Allen il più commentato e analizzato (gli altri grazie al cielo sono stati quasi tutti presi “at face value”, godendosi la superficie; il “quasi” riguarda le esercitazioni del regista alla maniera di Ingmar Bergman). Non manca il riferimento a un’infanzia che nessuno vorrebbe rivivere, raccontata questa volta dal narratore fuori campo, con la cadenza da cinegiornale: “Da ragazzo, Leonard Zelig è tiranneggiato spesso dagli antisemiti. I suoi genitori, che non prendono mai le sue parti e lo incolpano di tutto, stanno con gli antisemiti”. Liquidata l’infanzia, Zelig si confonde con gli sfondi che attraversa, come fa adesso l’artista cinese Liu Bolin (e con altrettanta destrezza tecnica, per proiettare Woody Allen dentro i filmati di repertorio degli anni 20 e 30). L’uomo-camaleonte viene esaminato da psicoanaliste e psicoanalisti, commentato da scrittori e saggisti che si prestano al gioco: Bruno Bettelheim, Susan Sontag, Saul Bellow (gli altri intellettuali che possono vantare una comparsata woodyalleniana sono Marshall McLuhan e Truman Capote in “Io e Annie”). Psicotico o nevrotico? Chi lo sa? L’unica certezza, chiosa il regista in un altro film, è che lo schizofrenico non soffre mai di solitudine. “Il dormiglione” è un film del 1973, racconta un uomo rianimato dopo 2 secoli di ibernazione. Woody Allen si maschera da robot per mimetizzarsi, con un casco in testa tipo colapasta e un altoparlantino che gli copre la bocca, per simulare la voce metallica (il suo migliore travestimento assieme allo spermatozoo-con-paracadute” in “Tutto quel che avreste voluto sapere sul sesso… ma non avete mai osato chiedere”, mentre laggiù nella sala macchine uomini sudati in canottiera girano manovelle per mantenere l’erezione). Con la scusa della distopia, sfotte un po’ di vizi della nostra epoca, che erano già vizi di mezzo secolo fa: l’ibernato tornato in vita aveva un ristorante vegetariano. “Come è possibile che non avessero capito il valore nutrizionale delle bistecche, oltre che delle torte e delle merendine?” si chiedono gli scienziati del 2173, quando un ristorante salutista sembra un’assurdità. In “Tutto quello che fa male ti fa bene”, il saggista Steven Johnson prende spunto dalle disprezzate merendine e bistecche per teorizzare “La curva del dormiglione” e applicarla ai consumi culturali. “Come avranno fatto a non accorgersi i nostri padri e nonni di quanto la deprecata televisione fosse tutt’altro che deprecabile, che le serie richiedevano spettatori intelligenti e non erano affatto l’oppio del popolo?”. Questo rischiavano di dire di noi i posteri, per fortuna la tendenza si è invertita e la serialità televisiva viene studiata seriamente (in Italia resta esemplare “Buona maestra” di Aldo Grasso). Rivelandosi spesso più completa e intelligente di molti romanzi candidati al Premio Strega. “Come avranno fatto a non accorgersi della genialità Woody Allen?”, diranno invece certamente di noi i posteri, ripensando a questi anni bui. Si chiederanno anche se conosciamo la differenza tra la giustizia e la gogna. Le accuse contro il regista sono state archiviate nel 1993, non c’erano neppure gli estremi per avviare un processo, e nello stesso anno medici e psicologi chiamati a perizia confermarono che nulla di sconveniente era accaduto. Né in soffitta né altrove (alla parola “soffitta”, Woody Allen ebbe ancora la forza di scherzare: “La mia claustrofobia mi tiene lontano dalle soffitte). E si chiederanno cosa può aver spinto attori e attrici che avevano felicemente lavorato con lui – per un ruolo nei suoi film, anche piccolo e a paga sindacale, c’era la fila e bisognava distribuire i numeretti – a rinnegarlo. Ah, se avessi saputo… Ah, se me lo avessero detto… Ah, il mio cuore di donna sanguina al solo pensarci… Perfino i critici del New Yorker fanno esercizio di pentitismo, rivedono i suoi film per prendere nota di ogni cedimento verso le ragazzine, e ancora rabbrividiscono. Ci si domanda se avessero mai visto “Manhattan”, prima. “Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso…” è un film a episodi del 1972, dal bestseller del sessuologo David Rueben (sono rimaste solo le domande). Oltre agli spermatozoi, addestrati come soldati secondo il canone classico dei film di guerra, c’è Burt Reynolds alla sala comandi, a capo degli scienziati che governano l’ere - zione: “La stiamo perdendo, la stiamo perdendo” (lo stesso anno l’attore era apparso nudo, sdraiato su una pelliccia, nel paginone centrale di Cosmopolitan). In un altro episodio, Woody Allen brandisce un crocifisso per esorcizzare una tetta gigante che per difendersi sprizza latte dal capezzolo. Scene che si potevano girare negli anni 70, oggi ci sarebbe la coda per protestare, vietare, lamentare il proprio disagio innalzato a misura del mondo. Sappiano comunque le anime sensibili che una tetta gigante compare anche in un racconto di Philip Roth uscito nello stesso anno. Un professore di letteratura comparata, tale David Kepesh, dopo una notte di sogni inquieti si sveglia trasformato in una mammella da 70 chili. Altro che scarafaggio. Compiuto il passaggio dalla scrittura alla stand up comedy, resta da compiere il passaggio dagli sketch al film vero e proprio. “Amore e guerra” ancora funziona per scenette, anche se la trama c’è – “la vita come un romanzo russo” si potrebbe dire per omaggiare Emmanuel Carrère – tra un omaggio Tolstoj e uno a Dostoevskij. Tra una cugina Sonia, un attentato a Napoleone, una condanna a morte ritardata di un’ora (ho avuto un buon avvocato), un pezzo di terra tanto piccolo che sta in tasca. L’apprendistato da regista finisce con “Io e Annie” (1977). Quando la moda la dettava il cinema, gli abiti maschili oversize di Diane Keaton si imposero. Assieme alla scena del corteggiamento: ascoltiamo quel che Alvy e Annie si dicono, e i sottotitoli rivelano quel che pensano davvero. Lei si interroga sulla propria avvenenza e intelligenza, lui vuole solo sapere se uscirà con lui a cena e si tratterrà per il dopocena. Da qui la battuta (successiva, ora siamo ancora nel periodo prude): “Il sesso non è la risposta, il sesso è la domanda, sì è la risposta”.

Parte 3

Successo raggiunto quando i coetanei non hanno ancora deciso cosa faranno da grandi, risultati al botteghino più che rispettabili, un personaggio riconoscibile che va in scena senza passare dal costumista, vestito come nella vita: camicia a scacchi su pantaloni sformati, occhiali-icona con montatura nera. E il controllo totale sui suoi film, che Woody Allen continua a scrivere a mano, preferibilmente stando sdraiato sul letto. Cosa può fare a questo punto un genio della comicità? Decide che il tragico è un genere più nobile, e che è arrivato il momento di mettere a frutto i pomeriggi passati guardando i film di Ingmar Bergman. La scintilla scoppia con “Monica e il desiderio” (che secondo Jean-Luc Godard sfoggia “il primo piano più triste della storia del cinema”), ravvivata da “Una vampata d’amore”: un direttore di circo che, deluso dalla moglie e dall’amante, sul punto di suicidarsi, spara a un orso. Quando arrivano “Il posto delle fragole” e “Il settimo sigillo”, è ormai passione consolidata. Nel 1978 “Interiors” interrompe una magnifica carriera che fino ad allora si era tenuta felicemente in superficie. Woody Allen fa un passo indietro, non compare come attore per non indurre gli spettatori in confusione. Lascia la scena a tre sorelle complicate – una è Diane Keaton, poetessa sposata a uno scrittore, entrambi tormentati (e mai qualcuno che stemperi la pesantezza con una battuta). Il padre annuncia che se ne andrà di casa, una sorella tenta il suicidio, tornano i rancori dell’infanzia (il genitore fedifrago poi torna con una fidanzata più vivace, e via con altri drammi). Il film ha i suoi fan, noi non siamo mai riusciti a farcelo piacere. Lo stesso vale per “Crimini e misfatti”, posizionato bassino nella lista delle preferenze. Vale per “Stardust Memories”, dove il regista europeo di riferimento è Federico Fellini. Vale per “Un’altra donna”, che vanta come direttore della fotografia Sven Nykvist, arrivato dritto dai set bergmaniani, quindi abilissimo a illuminare anime rimuginanti. Non abbiamo amato neanche certi film di routine – o turistici, quando gli incassi americani erano scesi al punto che nessuno in patria voleva più produrre i suoi film. E quindi i soldi andavano cercati nella più generosa Europa, dove i film alleniani ancora incassavano: Londra, Parigi, Barcellona, Roma. Ma esiste una legge non scritta, e purtroppo molte volte confermata: i registi lontani dal loro habitat naturale rendono meno che a casa, e più vanno lontani peggio riescono. Figuriamoci uno come Woody Allen che ha bisogno di New York come dell’aria (si spingeva in campagna solo perché Mia Farrow aveva una casa, non è finita benissimo). Cedimento momentaneo, si pensava allora. Cercando consolazione nel fatto che dopo “Interiors” era arrivato l’impeccabi - le “Manhattan”: il genere di film che, se non vi piace, allora non vi piace proprio il cinema. Bianco e nero strepitoso, battute che si ricordano a distanza di anni – “Eri così bella che non riuscivo a staccare gli occhi dal tassametro”; “Non avevo mai bevuto chianti di Varsavia”. Lo scambio: “Tu ti credi Dio!” / “Dovrò pure avere un modello”. Il tormentone di Diane Keaton: “Io sono di Filadelfia”. C’era l’elenco delle dieci cose per cui vale la pena di vivere, che comincia con Groucho Marx, seguono i film svedesi, Louis Armstrong, le mele e le pere dipinte da Cézanne (il settimanale satirico “Cuore” girò la domanda ai lettori, chiedendo le loro liste, i risultati furono da bar sport). E le musiche di George Gershwin, che con il fratello Ira ha firmato i musical più belli di sempre (anche Woody Allen si toglierà lo sfizio di girare il suo, molti anni dopo: “Tutti dicono ‘I love you’”). E chi non ha mai cercato a New York la panchina con vista sul Queensboro Bridge? Invece i film cupi tornano, e insieme la domanda: “La vita è comica oppure tragica?”, “bisogna buttarla sul ridere o piangersi addosso?”. Il dilemma viene discusso all’inizio di “Melinda e Melinda”, uscito nel 2004. Si confrontano due scrittori di teatro, durante una cena (nel mondo di Woody Allen è difficile trovare idraulici, anche se non è domenica). L’arrivo inaspettato della ragazza Melinda scatena la sfida. Dando origine a due mezzi film, uno che vira sul tragico, l’altro sul comico. Cominciano entrambi con un tentato suicidio, perché le cose brutte accadono, e hanno svolgimenti diversi. Lo spettatore osserva con curiosità il gioco. Ma è appunto un gioco, quel che accade alla ragazza – l’australiana Radha Mitchell, una delle poche a non uscire miracolate dall’incontro con il regista – non intristisce né fa ridere. A ogni film cupo, tornava la domanda: “Ma perché uno che ha la fortuna di essere Woody Allen sogna di essere Ingmar Bergman?” (solo un Woody Allen in forma smagliante potrebbe risponderci: anche questo potrebbe essere un capitolo interessante dell’autobiografia da cui gli editori perbene stanno alla larga, c’è il rischio che le scrittrici sensibili e impegnate passino alla concorrenza). Ma al ritmo di un film l’anno – non interrotto neppure quando gli anni sono diventati sessanta, settanta e ottanta nel 2015 – bastava distrarsi un attimo e non infierire. Tornavano subito le trame comiche, ma non per questo meno rispettose delle sofferenze umane. In certe interviste Woody Allen dice che la disciplina del lavoro tiene lontane le angosce con più efficacia dello strizzacervelli. In altre sostiene che così può vivere “dentro un mondo meraviglioso, popolato da belle donne e uomini arguti e situazioni drammatiche e costumi e scenografie, dove posso manipolare la realtà”. A parte la realtà da manipolare, troviamo qui lo spunto per “La rosa purpurea del Cairo”, con Mia Farrow che durante la Grande Depressione guarda e riguarda le gesta dell’avventuriero Tom Baxter. Al punto che Tom Baxter, a furia di vederla in prima fila trepidante, esce dallo schermo per portarla via con sé. E gli spettatori son furiosi, perché devono aspettare il ritorno dell’eroe, non si quanto durerà la tresca. Più meno quel che succedeva nel racconto pubblicato sul New Yorker, con il professor Kugelmass che porta via Emma Bovary da romanzo di Gustave Flaubert (provocando un certo scompiglio: “Chi è quel pelato accanto a Madame Bovary?” si chiede uno studente che ha aperto il romanzo e ha trovato qualcosa di diverso dal solito). L’uscita dallo schermo è un piccolo classico nei racconti di fantascienza all’epoca pionieristica della tv, quando erano gli uomini dentro lo schermo a gettare un occhio curioso sul mondo là fuori, e a stupirsi perché dall’altra parte del tubo catodico non arrivava la censura a inquadrare il caminetto quando sul divano la situazione cominciava a farsi rovente. Una bella gag tecnica, da mettere accanto all’uomo “fuori fuoco” Robin Williams, in “Harry a pezzi”: si sente poco bene, e per quanti sforzi faccia il direttore della fotografia, sulla pellicola resta una macchia senza fisionomia. Una cinquantina di film, più “Crisis in Six Scenes”, anche questo prodotto da Amazon quando i rapporti erano buoni, e non era ancora scattata l’accusa di insensibilità. “Tone-deaf”, nella versione originale: si è saputo quando il regista ha fatto notare che la sua vicenda giudiziaria era già nota al mondo, anche nella sua inconsistenza, quando il contratto è stato firmato. L’hanno chiamata serie, in realtà è un lungo film spezzato in sei parti, e pur non avendo nulla di nuovo è un delizioso ripasso del Woody Allen più ebraico (come sarà “Café Society”, ambientato in altra epoca e con Jesse Eisenberg perfettamente calato nella parte). Lo schlemiel è diventato vecchio, ma non ha perso nulla dei suoi timori e delle sue incertezze di fronte al mondo. Teme ancora che, secondo il vecchio detto, possa cadere sulla schiena e rompersi il naso. Ogni tanto anche a Woody Allen capitano i passi falsi. Largamente compensati dai gioielli della corona come “Broadway Danny Rose”, omaggio all’impresario teatrale ebreo un po’ sfigato. La scena in cui provano il numero degli strozza-palloni – “no secondo me prima del coniglio devi fare la giraffa, è più d’effetto”, incastrando palloncini a forma di bassotto – è un commovente monumento ai soldati semplici dello spettacolo, sempre in seconda terza o quarta fila, ma ostinati nel fare bene il loro lavoro. Altra perla, “Pallottole su Broadway”: satira feroce degli intellettuali, in questo caso gli scrittori di teatro, che discorrono per ore di integrità artistica e poi sono disposti a tutto pur di andare in scena. Anche a sopportare come prima attrice la pupa del boss che finanzia lo spettacolo, bella ma incapace di dire una battuta. Va sul set con la guardia del corpo Chazz Palminteri, che armato assiste alle prove, comincia a dare qualche consiglio (per esempio su come si comportano i gangster), fa riscrivere le battute che suonano male, e infine ammazza l’attrice cagna: non le permetterò di rovinare il mio spettacolo. Altra perla ancora, “Commedia sexy in una notte di mezza estate”, da William Shakespeare. Con l’infermiera Julie Hagerty che spiega il sesso a Mary Steenburgen: “E’ come il nuoto, devi seguire il ritmo della bracciata, poi quando il tasso spermatico è alto i maschi fanno quello che vuoi” (vista dall’esterno, è la scena degli spermatozoi in “Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso…”) Le attrici nei film di Woody Allen all’inizio cambiavano secondo l’avvicendarsi delle consorti. La seconda moglie Louise Lasser era una doppiatrice in “Che fai, rubi?”, la rivediamo (anche se non la riconosciamo) in “Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso…” e nel “Dittatore dello stato libero di Bananas”. Poi c’è la fase Diane Keaton, poi la fase Mia Farrow. In “Radio Days”, forse il film più autobiografico di Woody Allen – la famiglia anni Trenta che ascolta la radio in religioso silenzio, guardando fisso il mobiletto che contiene l’apparecchio; l’unico appuntamento rimediato dalla zitella di casa proprio quando Orson Welles annuncia lo sbarco dei marziani – ci sono entrambe. Era il 1987, stesso anno di uscita del malinconico “September”: Woody Allen lo aveva scritto con in mente la casa di Mia Farrow nel Connecticut. E pensava di girarlo lì, poi cambiò idea perché era arrivato l’inverno. Il ciclo si interrompe con Soon-Yi. Una schiera di spettatrici è dolorosamente costretta a prendere atto che neppure Woody Allen vuole un tipo come Diane Keaton come fidanzata (e noi c’eravamo illuse che fosse quello il suo ideale di fanciulla). Comincia la sfilata delle attrici che vogliono lavorare con lui, salvo prendere le distanze – come ha fatto Greta Gerwig, che recita in “A Rainy Day in New York” accanto a Timothée Chalamet, pentito pure lui per i terribile misfatto – quando il #MeToo lo rende persona da cui prendere le distanze. Solo in “Tutti dicono ‘I love you’” c’erano Julia Roberts, Drew Barrymore, Nathalie Portman. La lista continua con Emma Stone, Noemi Watts, Evan Rachel Wood, Patricia Clarkson, Charlize Theron, Cate Blanchett (e la strepitosa Sally Hawkins, che poi rivedremo in “La forma dell’acqua” di Guillermo del Toro). Gli attori nei film di Woody Allen sono sempre Woody Allen, almeno finché nella parte del innamorato tormentato non rischia il ridicolo. La sua prima controfigura è stato Kenneth Branagh in “Celebrity” (scelta pessima, e si era già un po’ oltre il tempo massimo). Poi c’è stato Larry David – uno dei creatori della serie “Seinfeld” in “Basta che funzioni”: film un po’ eccentrico, rispetto ad Allenlandia, infatti è un vecchio copione scritto da Woody Allen negli anni 70 per il suo amico Zero Mostel, altro comico ebreo. Il più azzeccato è l’ultimo, vale a dire Jesse Eisenberg: l’unico assieme a Alec Baldwin che fa somigliare vagamente “To Rome With Love” a un film di Woody Allen – come per “Vicky Cristina Barcelona”, la distanza da casa qui era massima, e gli effetti disastrosi. A Parigi è riuscito a limitare i danni, ma “Midnight in Paris” punta soprattutto sull’effetto sorpresa, e sulla curiosità di sapere chi fa chi, nella Ville Lumière degli anni Venti. Il nostro preferito è Adrian Brody con i baffi di Salvador Dalì. A Londra quasi la distanza non si nota, come dimostra lo strepitoso “Match Point” con Scarlett Johansson, il film che ha risollevato Woody Allen dalla seconda fase calante (non era male neanche “Scoop” dove Woody Allen nei panni del mago Splendini dà miglior sfogo, rispetto a “Magic in the Moonlight”, alla sua passione giovanile per i giochi di prestigio). Dalla prima fase calante era uscito grazie all’al - trettanto strepitoso “Harry a pezzi”, e a un bell’inferno dove sistemare gli amici, i conoscenti, le mogli, le amanti che lo accusano di rubare la loro vita per farne romanzi. Assieme agli avvocati, agli assicuratori, all’inventore delle finestre in alluminio anodizzato. Oggi ne avrebbe molti di più, di nemici da far bruciare tra le fiamme. (per i pacifisti e i cultori del dialogo: i nemici vorrebbero bruciare lui, e sono stati loro a cominciare). Gli siamo e saremo sempre grati per aver messo i titoli di testa all’inizio del film, bianchi in carattere tipografico Windsor su fondo nero (non quando ormai non li aspettiamo neanche più). Accompagnati da splendide canzoni del classico repertorio americano e jazzistico. Merita un monumento per le innumerevoli volte che ci ha fatto ridere. Perché la vita, di suo, tende verso la tragedia. Ma soltanto i comici sanno raccontarla bene.

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