Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 04/05/2019 a pag. I/XII con il titolo " Come si nasconde il califfo" il commento di Daniele Raineri
Daniele Raineri Abu Bakr al Baghdadi
Il nuovo video di Abu Bakr al Baghdadi è arrivato su Telegram mentre ero in attesa al gate dell’aeroporto di New York, seduto per caso in mezzo a una comitiva di ragazzine ebree osservanti. L’ho guardato curvo sul telefonino e nello stesso campo visivo avevo il terrorista nascosto da qualche parte in Iraq che si congratulava per una strage fatta da cingalesi contro le chiese in Sri Lanka e queste ragazzine con le gonne lunghe che pregavano in piedi molto serene in mezzo al viavai.
E tutto mi è sembrato ancora più urgente e connesso in un mondo dove i carnefici riescono spesso a superare la barriera che li separa dalle vittime e tocca analizzare riga per riga i loro messaggi di minaccia, quando li mandano.
Il contenuto di questi diciotto minuti è tutto in una frase che pronuncia a metà: “Dio ci ha ordinato di combattere il jihad, non ci ha ordinato di ottenere la vittoria”. Chiuso, potremmo finirla qui. Non importa se il gruppo terroristico nei cinque anni trascorsi dall’ultima apparizione di al Baghdadi ha perso tutto il territorio e decine di migliaia di combattenti ed è stato sconfitto su tutti i fronti, il suo capo dice che Dio gli ha detto di perseverare sulla stessa linea – massacri. La vittoria è accessoria, è opzionale, se arriva bene, si proverà a creare un regime islamista come prima, e se non arriva va bene lo stesso. L’importante è superare il test di devozione e ferocia sotto l’occhio di Dio, è ricordare che la vita qui e oggi è soltanto una copia in colori sbiaditi e crepuscolari della vera vita che aspetta a colori pieni nell’aldilà, ma soltanto se ci saremo sacrificati e avremo sterminato abbastanza nemici.
Se il primo video era diretto a tutto il mondo musulmano – venite ad abitare il Califfato perché abbiamo bisogno di voi, invito che fu ignorato dal novantanove virgola novantanove per cento dei destinatari – il secondo è stato prodotto per essere consumato sul mercato interno, quello dello Stato islamico.
Baghdadi è un mestatore stragista e stupratore e tuttavia non è scemo e sa che deve rispondere a due grandi accuse che gli vengono mosse dall’interno del gruppo dopo il tracollo e la delusione degli ultimi anni. Una è quella di essere un megalomane che ha voluto inseguire un progetto grandioso che era molto oltre le sue forze e ha trascinato nell’abisso tutti i volontari accorsi alla sua chiamata, la seconda è quella di non essere più in contatto con le operazioni quotidiane dello Stato islamico, perché chiuso e isolato in un bozzolo di sicurezza che lo tiene al riparo dalle intelligence che gli danno la caccia ma lo rende anche irrilevante nella guerra di sopravvivenza.
Ecco quindi Baghdadi in versione populista, che non parla più dall’alto del pulpito avvolto nei vestiti da califfo della dinastia abbaside – lo Stato islamico in fondo altro non è che una gigantesca rievocazione storica, ma molti dettagli sono sbagliati e i morti sono veri – e siede per terra e cita per nome alcuni comandanti di mediobasso livello morti da poco, come se fossero importanti, per lanciare un messaggio. Vedete? Mi ricordo di ciascuno di voi. Menziona persino il raid di inizio aprile ad al Foqaha, un paesello nella Libia centrale dove una banda dello Stato islamico è entrata fra le undici e mezzanotte, ha ucciso il sindaco e il capo della guardia municipale e poi si è dileguata. Un’operazione che ai tempi d’oro Baghdadi non si sarebbe nemmeno degnato di ascoltare e invece oggi elogia, perché abbassarsi è mettersi allo stesso livello dei suoi combattenti e lo fa apparire umile e in contatto.
E poi c’è la scena molto farlocca in cui riceve “i rapporti mensili” dalle varie wilayah dello Stato islamico, Yemen, Turchia, Sinai, Africa occidentale, Africa centrale… e finge di scorrere con interesse le prime pagine dei rapporti a significare che lui partecipa e tiene d’occhio tutte le attività dello Stato islamico, non è separato dal mondo come si sostiene. Baghdadi si sente messo sotto accusa, un mese fa è uscito un libro di dottrina islamista di 231 pagine che già dal titolo lo deride.
Se l’invito dello Stato islamico era quello di tendere la mano al califfo per prestargli giuramento, il libro avverte di ritirare la mano perché Baghdadi non merita la fiducia dei combattenti. E’ un saggio (scritto in modo molto pesante, ci dice chi l’ha letto) che argomenta la rottura necessaria della baya’, quindi del giuramento a Baghdadi – il che sarebbe un disastro per lui.
L’apparizione di Abu Bakr al Baghdadi pone un problema logistico e politico affascinante. Come si sposta dal punto A al punto B il terrorista più ricercato del medio oriente, inseguito dai servizi segreti di mezzo mondo, ora che non ha nemmeno più un territorio perché un mese fa ha perso anche l’ultima striscia – quella di Baghuz sulla riva del fiume Eufrate?
Come dribbla i posti di blocco montati ogni pochi chilometri in Siria e in Iraq, il fanatico che secondo una biografia era chiamato “Maradona” dagli amici del calcetto quand’era giovane e che secondo un’altra biografia era chiamato Messi dai compagni di carcere sempre per lo stesso motivo, sgusciava fra i difensori?
Per sei anni al Baghdadi ha potuto muoversi a piacere su un terreno che era controllato dai suoi uomini. Il dissidente che lo ha tradito per ragioni dottrinali e ha scritto il libro di cui sopra racconta che Baghdadi in questi anni ha vissuto a Mosul, poi nel 2016, cinque mesi prima che cominciassero le operazioni per prendere la città da parte dell’esercito iracheno, si è trasferito in Siria a Raqqa (così ha evitato nove mesi di battaglia che si sono conclusi con un’ecatombe da migliaia di vittime), e poco prima che i curdi stringessero d’assedio la città è fuggito sempre più in profondità nella valle dell’Eu - frate, sempre precedendo di qualche mese l’arrivo delle milizie liberatrici, di villaggio in villaggio fino a scomparire vicino al confine con l’Iraq (questa mappa degli spostamenti di Baghdadi è stata tradotta per il Foglio da un esperto, Aymenn al Tamimi).
Adesso vive di nuovo in un mondo ostile. Droni, aerei da ricognizione e satelliti tengono d’occhio le strade, dietro a ogni curva ci potrebbe essere un posto di blocco, in ogni villaggio remoto un locale che si accorgesse della sua presenza potrebbe avvertire gli apparati di sicurezza che lo braccano – non c’è bisogno nemmeno di ricordare la taglia di venticinque milioni di dollari offerta dal governo americano, al Baghdadi in quasi dieci anni di massacri si è fatto nemici ovunque. Nel 2014 dette l’ordine di sterminare un clan siriano molto esteso, quello degli Shaitat, i suoi uccisero mille persone in pochi giorni, i sopravvissuti oggi sono sparsi dappertutto e non dimenticano. Nello stesso periodo fece punire un clan iracheno (Albu Nimr) che non accettava la sottomissione, cinquanta maschi furono allineati fra le case, uccisi con un colpo alla nuca e lasciati lì. E si potrebbero citare molti altri casi per spiegare che quello che talvolta si dice, che Baghdadi può contare su una rete di alleanze locali che garantiscono la sua protezione, non è più vero: basta una telefonata per vendicarsi dell’uomo che per fanatismo ha sparso lutti in un terzo del medio oriente.
Il problema dei suoi spostamenti impuniti allude a un problema più grosso: chi comanda adesso in Iraq e in Siria e negli altri luoghi infestati dallo Stato islamico, noi o loro? Dove per “noi” s’intende noi che tifiamo per la cattura ma anche uno dei tanti governi impegnati nella caccia – America in testa – e per “loro” s’intende la scorta di al Baghdadi che lo tiene in vita da quando fu nominato capo del gruppo nel 2010. Quelli fanno bene il lavoro, perché il loro protetto è il più longevo tra i capi dello Stato islamico.
Il primo, Abu Mussab al Zarqawi, durò tre anni prima di essere individuato dentro a una piccola villa in un palmeto – due aerei la rasero al suolo, i soldati lo trovarono in fin di vita – e il secondo, il quasi omonimo Abu Umar al Baghdadi, durò quattro anni prima di essere scovato in un tunnel sotto a una casa isolata nel deserto, a cui si accedeva attraverso una botola nascosta in bagno (ma i soldati iracheni che erano certi di essere nel posto giusto riuscirono a estorcere a uno dei ragazzini di casa il segreto del passaggio).
Per anni fonti non meglio specificate dei servizi segreti iracheni hanno raccontato ai giornali come Abu Bakr al Baghdadi si spostasse da un capo all’altro del suo Stato islamico ben rasato, su una macchina molto anonima, né vecchia né nuova, con vestiti moderni e in compagnia soltanto di due persone fidate, una delle quali è suo cugino e siede al volante. L’espediente era studiato in accordo con la regola ovvia che dice: nessuno ti può uccidere o catturare se non riesce a distinguerti nel traffico di centinaia di migliaia di automobili e persone che ogni giorno è spiato dalle telecamere in volo sopra il territorio in mano agli estremisti. Il terrorista era la versione vivente della Lettera rubata, il racconto di Poe in cui una lettera preziosissima è semplicemente gualcita e lasciata con noncuranza sopra il camino in modo che chi ogni notte ispeziona la casa e la cerca ossessivamente pensi che sia una busta senza importanza.
“Non dorme mai in un posto diverso”, era l’altra cosa che si sentiva dire di lui. Gli americani possono centrare con un missile qualsiasi posizione sul pianeta con un’ora di preavviso e una precisione di mezzo metro, ma sono impotenti se non sanno quale punto colpire. Nel marzo 2016 una squadra delle forze speciali americane a bordo di due elicotteri si è messa in coda a un’automobile bianca e anonima che viaggiava nel deserto vicino Deir Ezzor in Siria, sopra c’era il vice di Baghdadi – spesso si dice “il vice di Baghdadi” per indicare qualsiasi persona un po’ più importante del solito nel gruppo terroristico, ma questo era davvero il secondo in comando – che si è ucciso piuttosto di farsi catturare. Due mesi più tardi un drone americano ha sparato un missile contro la macchina, di nuovo bianca e anonima, su cui viaggiava il capo dei talebani Mullah Mansoor sulla strada piatta al confine tra Iran e Pakistan. Sono le due situazioni che forse ci dicono di più a proposito di come si sposta Baghdadi, con la differenza che lui non si fa individuare mai. Una scuola di pensiero dice che quella della macchina solitaria nel suo caso è soltanto una leggenda metropolitana. Tutti quelli che hanno visto al Baghdadi da vicino dicono che ha la fobia degli apparecchi elettronici, telefonini e laptop, ed è convinto – e come dargli torto – che funzionino come spie e segnalatori per i bombardieri americani. Ma se viaggia senza aggeggi elettronici, lo Stato islamico può davvero correre il rischio che il suo califfo resti fermo sul ciglio della strada in mezzo al nulla per un banale guasto al motore? (segue nell’inserto XII) Non sarà più probabile che viaggi con almeno un paio di auto di scorta, una che lo precede di qualche minuto per accorgersi prima dell’eventua - le presenza di posti di blocco lungo la strada e una che lo segue di qualche minuto in caso di motore grippato? E se arrivano gli elicotteri americani e lo portano via in mezzo al deserto, mentre viaggia quasi da solo e senza telefonino in macchina? Meglio farlo seguire a distanza con discrezione da almeno un veicolo d’ap - poggio così che qualcuno veda sempre cosa gli succede.
Una fonte americana che segue questi dossier e che non citiamo per nome però avverte: c’è un algoritmo sviluppato apposta per beccare nel traffico i veicoli che fanno finta di non viaggiare assieme e però viaggiano assieme. Il software setaccia in diretta i filmati dei droni e si accorge se due o più guidatori stanno facendo le stesse cose anche se sono separati da altre auto. E’ un’informazione molto interessante, che fa capire cosa succede in questi anni in medio oriente. Quindi la scorta di Baghdadi se lavora così potrebbe essere scoperta. Un ex guerrigliero dello Stato islamico racconta alla giornalista araba Jenan Moussa di quando incontrò Baghdadi in macchina vicino a Idlib in Siria nell’aprile 2013. “Guarda dentro quell’auto”, gli bisbigliò il suo comandante. Era un normalissimo veicolo bordeaux, non vecchio non nuovo, senza targa, con dentro quattro uomini con fucili d’assalto appoggiati sulle gambe e uno di loro portava sul capo uno scialle nero. Era Baghdadi che era venuto a mettersi d’accordo con le fazioni locali per mettere in chiaro la supremazia dello Stato islamico. Venne alla stessa villa per cinque giorni di seguito, ma questo comportamento appartiene al passato.
Quella era l’età dell’oro dell’impunità. Oggi nel post “Califfato” fare lo stesso tragitto cinque giorni di seguito è volersi attirare i droni addosso.
Poi questa settimana è arrivato il video di Abu Bakr al Baghdadi, il suo secondo a viso scoperto (ne esiste un altro di quando era un comandante locale, nel 2008, in passamontagna). E si è capito che quello che ci hanno detto finora su come sfugge alla sorveglianza – ben rasato, sempre in giro, mai due notti di seguito nello stesso posto – è una bugia. La barba di Abu Bakr al Baghdadi. Sembra una domanda stupida, ma nessuno fra coloro che hanno avuto accesso ai prigionieri dello Stato islamico che possono dire di avere incontrato al Baghdadi – rari – e che oggi sono chiusi in carcere ha fatto chiarezza su questo punto fatidico: il vostro capo porta ancora la barba? E se sì, come la porta? La questione è centrale. Quando al Baghdadi salì i gradini del pulpito della moschea di Mosul nel luglio 2014 per la prima volta davanti alle telecamere, mentre le sue guardie del corpo si mescolavano con nonchalance fra le file di fedeli, portava un barbone folto. Dieci anni prima, nel 2004, i capi dello Stato islamico che registrarono un video di poco più di un minuto mentre cantavano un inno seduti dentro a un appartamento a Baghdad erano tutti rasati e in camicia perché la necessità lo imponeva, dovevano scivolare fra i posti di blocco spesso con documenti falsi, era meglio così. C’erano pure gli americani, non si poteva attirare l’attenzione. Dieci anni più tardi la barba di al Baghdadi a Mosul davanti alle telecamere fu il trionfo dei fanatici. Oggi sappiamo che Baghdadi non ha mai smesso di essere lo stesso Baghdadi del 2014 e non ha rinunciato all’immagine di leader islamista.
A questo punto ricordiamoci: sfuggente non vuol dire eroico. Abu Bakr è un odiatore maniacale e quando lo Stato islamico sequestrò una ventiquattrenne americana sulla strada tra il confine turco e Aleppo – dove era andata per un pomeriggio soltanto, come volontaria in un ospedale – lui ordinò che gliela portassero con regolarità per stuprarla. Lo fece perché la donna era americana e cristiana (lei rifiutò di convertirsi e morì diciotto mesi dopo in circostanze mai chiarite, si dice in un bombardamento). Baghdadi vive nell’illusione di essere un condottiero islamista, ma tira avanti dentro una bolla di sicurezza che lo protegge dalla guerra attorno a lui. E da quella bolla si manifesta per impartire una linea monocorde di ordini sempre uguali (bombe, bombe e decapitazioni) che hanno di fatto riportato indietro il medio oriente di secoli, per esortare gli altri a morire in battaglia quindi sotto i bombardamenti e per violentare prigioniere. Adesso la barba è persino mezza ramata, tinta con l’henné. Nessuna speranza di non essere notato se prova a superare un posto di blocco.
Si dice che il profeta Maometto si tingesse la barba dello stesso colore e che avesse proibito a ebrei e cristiani di tingere le loro quando diventavano grigie. Tingersi la barba divenne quindi per i musulmani anziani un modo come un altro per seguire il precetto di differenziarsi dai non musulmani, una regola generale che spiega anche perché Baghdadi (e tutti i suoi fan) porta l’orologio al polso destro e non a quello sinistro come sarebbe normale. I prigionieri che lo hanno incontrato potrebbero averci dato informazioni fuorvianti Prendiamo il caso di Abu Zaid al Iraqi, un capo dello Stato islamico che era riuscito a fuggire in una località di mare in Turchia con il passaporto del fratello e che nel 2018 è stato preso e spedito nel supercarcere di Baghdad, dove ora aspetta la morte per impiccagione. Abu Zaid ha detto di avere visto Abu Bakr al Baghdadi nell’estate 2017 e di averlo trovato smagrito, patito, imbiancato dallo stress di essere il capo di uno Stato islamico che stava crollando e anche di essere in cima alla lista dei latitanti in medio oriente. Invece due anni dopo lo troviamo più o meno in forma, per avere 49 anni, e con i lineamenti pieni. Viene in mente il tiro che un prigioniero dello Stato islamico giocò nel 2007 agli americani quando raccontò che il capo supremo, Abu Umar al Baghdadi, in realtà non esisteva e che i suoi proclami in realtà erano letti da un attore. Gli americani si convinsero che stavano dando la caccia a un fantasma, fino a quando due anni più tardi realizzarono di essere stati ingannati e nel 2010 come abbiamo detto lo trovarono. Nella confessione Abu Zeid però dice una cosa che suona vera. Quando la macchina di Al Baghdadi arriva a destinazione o entra dentro l’edificio oppure la scorta ha messo un telo davanti alla porta d’ingresso in modo che nemmeno chi sorveglia dall’alto possa vedere chi scende dal veicolo.
I terroristi hanno imparato la lezione da quello che accadde a Osama bin Laden, che fu fotografato da un drone dietro al muro della sua villa ad Abbottabad in Pakistan. Si vedeva soltanto un uomo di alta statura, ma fu abbastanza per spingere la Cia a insistere. Nel giro di pochi mesi le forze speciali arrivarono a ucciderlo. Se al Baghdadi non va in giro rasato e in jeans, allora come si sposta? Qualche mese fa un anonimo che forse è imparentato con Abu Mussab al Zarqawi, il giordano che è il padre fondatore dello Stato islamico da molto prima che prendesse il nome di Stato islamico, ha pubblicato una sua biografia in arabo che è circolata sui soliti canali clandestini. Vi si legge che nel 2003 Zarqawi entrò in Iraq dentro a un’autocisterna e che per poco non vi soffocò dentro. Non si vuole dire qui che Baghdadi giri dentro la pancia di un’autocisterna, ma è molto probabile che sfrutti qualche veicolo più capiente della solita automobile anonima in cui viaggiano – e si fanno scoprire – i suoi sottoposti. C’è chi ha detto negli anni passati che abbia sfruttato finti camion di ambulanti oppure per il trasporto del bestiame, ma con tutto quello che si sente è difficile dare credito ai rumors. Ora però suonano più solidi. Oppure c’è un’altra ipotesi. Baghdadi non si sposta, è stanziale. I viaggi sono il momento più pericoloso per i capi islamisti, sono molto esposti, tutti i suoi uomini più importanti sono stati uccisi dagli americani mentre erano dentro a un veicolo. Abu Mohammed al Adnani, agosto 2016 su una strada vicino Aleppo. Abu Ali al Anbari, marzo 2016 sulla strada vicino Deir Ezzor. Abu Mutaz al Qureshi, novembre 2015, sulla strada che entra a Mosul da ovest.
Forse Baghdadi ha scelto la soluzione in stile Abbottabad come Osama bin Laden, vive con discrezione in qualche villa molto riservata, lontana da vicini occhiuti, con un prestanome pulito che figura come proprietario e non attira sospetti. Non s’infila se non molto di rado in veicoli anonimi, non corre il rischio di incontrare posti di blocco, resta immoto confidando che le probabilità che il suo nascondiglio sia scovato sono molto basse perché non è collegato a internet o alla rete telefonica e fa affidamento su una rete di corrieri di fiducia per ricevere informazioni e impartire istruzioni. Forse, e siamo nel campo della speculazione totale, dispone di più nascondigli e ruota con cautela da uno all’altro. Se vale l’esperienza del passato, c’è un altro momento in cui i capi terroristi sono molto vulnerabili, oltre a quando viaggiano: quando fanno video, perché devono convocare corrieri, devono lavorare con chi usa le telecamere, creano un’anomalia che può essere notata. Zarqawi fu ucciso sei settimane dopo aver pubblicato il suo unico video. Il che ci dice che Baghdadi si è convinto che questo passo fosse proprio necessario dopo cinque anni di sparizione per governare il malcontento interno.
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