Riprendiamo dalla STAMPA di iggi, 04/05/2019, a pag.2/3 due servizi di Giordano Stabile e Francesco Semprini sulla guerra che vede coinvolto lo Yemen dominato dai genocidi Houthi e oggi sotto l'influenza dell'Iran, entrambi uniti contro l'Arabia Saudita.
Scrive Stabile: " L’Arabia Saudita, spiega il portavoce della Coalizione, generale Turki al-Malki, non può permettersi «di avere un Hezbollah alle porte di casa, manovrato e armato fino ai denti dall’Iran, compresi i missili balistici che minacciano persino Riad». Ecco in poche ma chiare parole quel che sta avvenendo e che aiuta a capire da che parte deve stare l'occidente. E' sempre interessante conoscere le analisi degli esperti, che però non suggeriscono mai le soluzioni. A questo ci ha pensato il portavoce della Coalizione, generale Turki al-Maliki.
Ecco i due articoli:
Giordano Stabile Turki al-Maliki
Giordano Stabile: " Sulla linea del fronte nello Yemen"
Appena la strada sterrata, ripida, s’interrompe, fra bossoli, rottami di razzi, antenne mezze abbattute, la valle appare giù in fondo, come un precipizio. La montagna, da quel lato, sembra tagliata da un coltello, in verticale. Sotto, mille metri più in basso, si vedono le case del villaggio di Al-Barran, le finestre vuote come gli occhi di un teschio. Da mesi non ci abita più nessuno. È la terra di mezzo fra il regno degli Houthi e le linee dell’esercito nazionale yemenita, che ha strappato il cucuzzolo ai guerriglieri sciiti dopo un’offensiva di mesi, estenuante, per snidare i cecchini, i mortai, le postazioni dei lanciarazzi dalle valli strette, pietrose, micidiali per le imboscate. L’ultima postazione è un muretto di pietre accatastate e una feritoia dove Abdul Hassan appoggia la mitragliatrice da 7.62. Come i compagni indossa una specie di divisa, e il turbante tradizionale che può essere sciolto per coprire il viso e ripararsi dalla polvere o dagli sguardi indiscreti. Sono miliziani riciclati nelle forze armate regolari, alcuni ancora con i sandali, gente del posto, gli unici che possono combattere fra queste vette che sfiorano i tremila metri. La trincea è un punto di osservazione, e non si può sostare a lungo perché è esposta al fuoco. Gli Houthi sono appostati dal lato opposto della valle e se notano movimenti tirano. «L’altro giorno – raccontano – un razzo ci ha mancato di poco». Bisogna ripararsi poco sotto la vetta. «Sanaa si trova a 36 chilometri – spiega il generale Ahmed Hassan Joubran, responsabile del fronte nel distretto di Naham -. È il punto più vicino alla capitale e gli Houthi si sono fortificati in modo incredibile, temono uno nostro blitz». Riconquistare Sanaa è il principale obiettivo del governo di Abdrabbuh Mansur Hadi e della Coalizione a guida saudita che lo appoggia contro i ribelli sciiti, sostenuti dall’Iran. Lo Yemen, adesso ancor più della Siria, è il campo di battaglia nella sfida fra sauditi e iraniani per l’egemonia in Medio Oriente, ma i governativi sono bloccati in una guerra di posizione. «Quando arriveremo a Sanaa? Qariban, presto», ribatte il generale. Poi aggiunge «inshallah, se Dio vuole». Il che vuol dire fra mesi, forse anni. Nel febbraio 2015 gli Houthi hanno cacciato il presidente Hadi dalla capitale è si sono impadroniti di un terzo dello Yemen. Un blitz devastante con l’aiuto dell’ex raiss Ali Abdullah Saleh, che li ha fatti dilagare a Sud fino ad Aden, e a Est alle porte della cittadina di Marib, lo spartiacque fra lo Yemen delle montagne e del deserto. L’intervento della Coalizione sunnita, che comprende 10 Paesi, quelli del Golfo, l’Egitto, il Sudan, gli ha impedito di catturare Hadi, poi fuggito a Riad, e prendersi tutto il Paese. La controffensiva è cominciata due anni fa e adesso i governativi hanno in mano «dell’85 per cento del territorio yemenita». Il difficile viene ora. La valle che scende verso Sanaa è «saturata da milioni di mine». È incassata, una colonna in movimento sarebbe esposta ai tiri dei cecchini, dei missili anticarro. Un incubo. L’esercito yemenita è composto sulla carta da 300 mila uomini, contro i 70 mila stimati per gli Houthi. Ma per la composizione tribale dello Yemen, soltanto quelli che provengono dalla provincia di Sanaa sono davvero disposti ad avanzare. Gli altri sembrano un esercito nomade accampato sulle montagne. Ai lati della strada che sale da Marib le tende dei soldati crescono come una fungaia. Tendoni mimetici coprono i vecchi carri T-55, cannoni da 122 millimetri, mortai, qualche lanciarazzi Katiusha. Piccoli recinti custodiscono le capre, di rinforzo ai rifornimenti alimentari. Il grosso del lavoro è fatto da robusti pick-up Toyota, muli che si inerpicano su strade impossibili, fra le rocce che il sole implacabile che rende quasi bianche, fra pochi arbusti, acacie che sembrano anch’esse sofferenti, piegate da una natura troppo aspra. Solo a un tratto, fra un curva e l’altra, appare un torrente, color smeraldo, un miraggio. Dall’altro lato, raccontano i soldati fuggiti da Sanaa, che tirano avanti masticando tutto il giorno foglie di qat, una pianta stimolante, è «tutta un’altra cosa», una valle verde, coltivata, irrigata dalle piogge estive, un «paradiso». Molti hanno ancora le famiglie là. In un inferno. La «peggiore crisi umanitaria» del pianeta, come è stata definita dall’Onu, che ha appena aggiornato il bilancio di quattro anni di conflitto. Centoduemila morti nei combattimenti, 131 mila di fame e malattie, soprattutto il colera che ha fatto strame di bambini. Gli Houthi, dopo aver perso Aden, si sono asserragliati sulle montagne, in quello che era l’antico imamato, un regno di mille anni che si è aperto al mondo nel 1962, come repubblica nell’ex Yemen del Nord. Il nuovo regno degli Houthi è assediato, retto con pugno di ferro, ma senza quasi più cibo, con la principale via di sostentamento dal porto di Hodeidah, sul Mar Rosso, anch’esso circondato e salvo soltanto in virtù di una tregua imposta dall’Onu per permettere l’afflusso degli aiuti umanitari. È un rivolo insufficiente, tanto che le Nazioni Unite stimano in 13 milioni le persone «a rischio alimentare», alla fame. Tutti quelli che possono, che hanno qualche soldo per corrompere le guardie ai posti di blocco, scappano, soprattutto verso Marib, la provincia confinante verso Est. Marib è passata da 140 mila abitanti a più di un milione. I profughi vivono in campi tutto attorno al centro abitato, che si allarga in una febbre di costruzioni. L’impressione è che la Coalizione voglia trasformarla in un centro logistico, perché la marcia su Sanaa sarà molto lenta. Una base saudita si è dotata di sistemi anti-missile Patriot, e presto avrà una pista per gli aerei. I profughi trovano lavoro soprattutto nell’edilizia. Nei loro racconti il regno degli Houthi è sempre più cupo. I miliziani sciiti, con risorse agli sgoccioli, prendono di mira le famiglie reputate poco «leali», impongono tasse, costringono i genitori a inviare al fronte figli appena adolescenti. È il caso di Mohammad al-Foulay, 32 anni. Nella tenda con la moglie e i tre figli, vestito con l’abito tradizionale dalla larga cintura che accoglie il pugnale ricurvo, racconta di essere rimasto in un carcere, accusato di «tradimento», per quasi due anni, picchiato, torturato con scosse elettriche. Mohammad si ritiene fortunato perché i figli «erano troppo piccoli per essere arruolati». Secondo la Wethaq Foundation sono 12.433 i bambini soldati registrati nello Yemen, il 75 per cento nelle file degli Houthi, gli altri fra i governativi. A Marib un centro finanziato dal King Salman Humanitarian Aid and Relief Centre ne sta curando 242. L’edificio a due piani assomiglia a un collegio, le stanze per dormire linde e ordinate, piene di giocattoli e disegni. Nel centro ci sono una trentina di bambini, magri, gli sguardi diffidenti, spaventati, alcuni consunti dallo stress e dalle anfetamine che davano loro per spingerli all’attacco. Bashar, 14 anni, racconta di essere stato preso con la forza all’uscita dalla scuola, poi spedito al fronte, ferito, ricoverato in un ospedale da dove è riuscito a fuggire. Il direttore del centro, Abdul Rahman alQobati, racconta che la maggior parte dei bambini vengono raccolti per strada, e che non tutte le famiglie «li rivogliono indietro». La riabilitazione dura 45 giorni, è condotta in primo luogo da uno psicologo. Alcuni hanno subito anche mutilazioni e sempre in città è stato istituito un centro per l’impianto di protesi. Il disastro umanitario in Yemen pesa nei rapporti fra l’Arabia Saudita e gli alleati occidentali. Riad reagisce con l’invio massiccio di aiuti, che ora assommano a 11,2 miliardi di dollari. Cibo, medicinali, concentrati però nella parte controllata dai governativi. Al comando della Coalizione, nel ministero della Difesa saudita a Raid, insistono che viene fatto tutto il possibile per evitare «danni collaterali», vittime civili. «Ogni raid aereo richiede giorni di osservazioni – spiegano -. Gli Houthi si mescolano ai civili. Ci sono 45 mila obiettivi che non possiamo colpire perché vicini a case, scuole, ospedali; prima di ogni attacco chiediamo il parere di un avvocato, che dice quasi sempre no». I Paesi europei, inclusa l’Italia, sono sotto pressione per la fornitura di bombe e per convincerli della propria buona fede la Coalizione ha invitato esperti occidentali alla valutazione dei raid. Quella aerea è però l’unica arma che può permettere all’esercito yemenita di prevalere sui guerriglieri della montagna. I sauditi hanno duemila militari sul terreno, e una buona parte serve a valutare gli obiettivi. L’Arabia Saudita, spiega il portavoce della Coalizione, generale Turki al-Malki, non può permettersi «di avere un Hezbollah alle porte di casa, manovrato e armato fino ai denti dall’Iran, compresi i missili balistici che minacciano persino Riad». La Coalizione è pronta un compresso, a un accordo politico che includa «anche gli Houthi, ma disarmati». La fine della guerra, per via militare o politica, è lontana. Si profila una nuova offensiva, con lo scopo di «fare pressione e costringerli a sedersi a un tavolo, come è successo dopo l’attacco su Hodeidah». In cima alla montagna aspettano soltanto l’ordine.
Francesco Semprini: "Iran e Arabia combattono un conflitto per procura"
Aaron David Miller, tra i massimi esperti di Medio Oriente del Woodrow Wilson International Center for Scholars, negoziatore di fama internazionale e consigliere per segretari di Stato repubblicani e democratici, perché l’attenzione sullo Yemen è inferiore rispetto ad altri conflitti? «Ci sono tre motivi. Il primo è che il conflitto in Yemen nasce da una crisi politica e umanitaria che ha visto i ribelli Houthi tra i principali attori, trasformata in guerra solo in una seconda fase, ma che, di fatto, è stata ignorata a lungo anche dopo il 2014 quando il conflitto vero e proprio è scoppiato. Secondo la guerra in Yemen è più complicata da coprire da un punto di vista giornalistico, rispetto ad esempio a quella in Siria. Terzo perché tutti e quattro i principali attori, Arabia saudita, Emirati, Iran e Stati Uniti non hanno affatto interesse a mostrare cosa stanno facendo in quel Paese martoriato. Atti gravi di cui ognuno attribuisce la colpa all’altro». 2 Non ci sono dubbi però che si tratta di un’altra guerra regionale combattuta per procura. «Dobbiamo fare le dovute distinzioni, ad esempio, rispetto alla Siria. In quel caso il numero di attori coinvolti è stato decisamente superiore a quello in Yemen, non solo in termini di governi ma anche di istituzioni, mediatori, negoziatori e via dicendo. In secondo luogo in Yemen, rispetto alla Siria, la guerra nasce da una crisi interna dovuta a conflitti tribali, politici e religiosi che è a sua volta il risultato di ingerenze esterne. Tali da aver balcanizzato il Paese creando tanti feudi svincolati dal governo centrale». 3 Gli Stati Uniti dovrebbero fare un passo indietro? «A mio avviso sì. Perché dovrebbero aver a che fare con un conflitto del genere? Se vogliamo aiutare i sauditi a difendersi dagli attacchi missilistici dei ribelli Houthi fornendo loro tecnologia militare è un conto. Ma essere corresponsabili di bombardamenti come quelli attuati dalla colazione guidata da Riad è un’altra cosa».
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