Riprendiamo da AVVENIRE di oggi, 01/05/2019 a pag.23, con il titolo "Il dolore eterno nel Canto di Katzenelson" il commento di Angelo Paoluzi.
L'edizione Giuntina del libro
Diciannove milioni di violenti con il fucile in mano non riuscirono durante sette anni, a cominciare dall'Austria nel 1938 e per giungere sino al 1945, a imporre in ventisette Paesi d'Europa una decente forma di cultura: di loro - i tedeschi -, se guardiamo le carte, non resta di quegli anni che un cumulo di macerie e la memoria del male. Sono invece riemersi nelle circostanze più impensate i documenti a espressione dei valori di una umanità che si testimonia come tale: a partire dal Diario di Anna Frank per giungere, in una filiazione che si arricchisce ogni giorno, a testi di teatro, a spartiti di musica, a poemi come Il canto del popolo ebraico massacrato di Yitzhak Katzenelson, uno scrittore del quale oggi ricorre il 75° anniversario dalla morte, il 1° maggio 1944 nel campo di concentramento di Auschwitz. Il canto (in Italia è stata appena riproposta da Feltrinelli la versione di Erri De Luca, con il titolo Canto del popolo yiddish messo a morte, pagine 128, euro 7,50) appartiene probabilmente a quanto più di sofferto -e drammatico sia stato scritto non solo nella letteratura yiddish ma in quella mondiale, ed è universalmente riconosciuto come un capolavoro, un poema sull'Olocausto «scritto... con il sangue e col sangue della sua famiglia e con quello del suo popolo», nota il critico Noah Roselboom, «l'urlo - osserva Sigrid Sohn, prefatrice di una delle tante edizioni dell'opera - di un poeta ferito a morte che racconta eventi difficilmente descrivibili».
Yitzhak Katzenelson
La vita di Katzenelson, uno dei maggiori scrittori e drammaturghi ebrei della prima metà del secolo scorso, era considerata talmente preziosa dalla sua comunità che, a partire dall'occupazione tedesca della Polonia, veniva circondata da molte cautele e si voleva impedire che gli invasori non lo eliminassero, come erano soliti fare con i rappresentanti dell'élite. Ma ciò non poté impedire che prima venisse sterminata ad Auschwitz una parte della sua famiglia, la moglie, i due figli piccoli e il fratello, e che in seguito lui stesso e il terzo figlio fossero inviati in un campo di concentramento in Francia, a Vittel, con destinazione finale sempre Auschwitz. Appunto a Vittel, nell'ottobre del 1943, iniziò la scrittura dei quindici capitoli del poema, articolato secondo un riconoscibile schema biblico anche se con accenti di disperazione sulla sorte del popolo ebreo e la descrizione delle vessazioni alle quali lo sottoposero gli occupanti. Se vogliamo sono pagine di storia vera e propria, affidata a versi di una rara forza e di una seducente bellezza: vi si descrivono le conseguenze della invasione nazista in Polonia, le vicissitudini della comunità ebraica, con alcuni fra gli episodi più raccapriccianti, a cominciare dalla deportazione dei bambini e dallo svuotamento del ghetto di Varsavia. «Sono stati i primi a morire, i bambini ebrei, tutti quanti, / poveri orfanelli rosi dal freddo, dalla fame e dai pidocchi, / tanti santi messia, santificati dalla sofferenza... Ma perché questa punizione? Perché nei giorni del massacro sono stati loro i primi a pagare al male il prezzo più alto?». Katzenelson non ha dubbi sulla fatalità del destino che attende i suoi correligionari: la poesia è il solo mezzo che può utilizzare perché non ci si dimentichi, il solo mezzo per invocare pietà su un popolo condannato. Per questo concluderà l'opera in tre mesi e mezzo, il 17 gennaio 1944. Era necessario che l'opera si salvasse: i manoscritti furono nascosti in bottiglie in un posto determinato, e G furono ritrovati da una prigioniera, Miriam Novitch, scampata allo sterminio, dopo la liberazione del lager di Vittel da parte degli americani.
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