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Il Venerdì di Repubblica Rassegna Stampa
26.04.2019 'Il maestro della cabala': la biografia di Gershom Scholem
Recensione di Marco Filoni

Testata: Il Venerdì di Repubblica
Data: 26 aprile 2019
Pagina: 115
Autore: Marco Filoni
Titolo: «Gershom Scholem, nessun dogma»

Riprendiamo dal VENERDI' di REPUBBLICA di oggi, 26/04/2019, a pag. 115, con il titolo "Gershom Scholem, nessun dogma" la recensione di Marco Filoni.Marco Filoni.

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La copertina (Carocci ed.)

Ci sono individui che riescono a passare indenni attraverso i tumulti della storia, quasi con noncuranza. Poi ci sono esistenze che invece sono la pelle di quella storia, esse stesse tracce di un'epoca. Gershom Scholem appartiene a questi ultimi- Il suo nome brilla nel firmamento ebraico: già in vita riconosciuto come studioso prestigioso, è oggi un riferimento obbligato di qualsiasi discorso sulla tradizione ebraica o sulla cabala, di cui è stato il maggiore interprete del Novecento - e forse di sempre. Ma c'è un problema quando si parla di Scholem: tanto l'uomo quanto il suo pensiero non si lasciano ridurre a etichette, non lo si può incasellare in nessuno schema. Come scriveva Franz Rosenzweig a un amico quando Scholem aveva appena ventiquattro anni: «Scholem è realmente antidogmatico. Non è possibile indottrinarlo. Non ho mai visto nessuno come lui tra gli ebrei occidentali. E forse l'unico che sia realmente tornato a casa. Ma è tornato a casa da solo». Su quell'espressione «tornato a casa» si potrebbe forse scrivere una biblioteca, di certo un libro. Ed è quello che ha fatto l'americano David Biale con II maestro della cabala. Vita. di Gershom Scholem (pubblicato da Carocci nella traduzione di Gian Mari oCaol.ln questa bella biografia, ricca e documentatissima - l'autore per anni ha scartabellato archivi, corrispondenze e inediti in mezzo mondo - emerge tutta la difficoltà di avere a che fare con la sfuggevolezza di Scholem. Nato a Berlino nel 1897, la sua famiglia era tutto fuorché religiose: non ne ricevette alcuna identità ebraica. ln questo assomigliava a Kafka, che imputava al padre «lo zero di ebraismo» di cui disponeva. Ciononostante quell'interesse sbocciò, fino a diventare fervore. Con ironia, anni dopo, lo stesso Scholem dirà che l'unica ragione a spingerlo in sinagoga era stata una ragazza, pare malto bella. Però, per quanto vera, la spiegazione non basta. La vitalità e persino la sregolatezza con le quali il nostro andava affrontando le questioni ebraiche erano il segno della sua stessa personalità: da un lato l'intelligenza, vivacissima e piena di guizzi; dall'altro il caratteraccio, iracondo, sempre pronto all'incandescenza. Scholem rifiutava le sue radici di ebreo tedesco borghese: questi secondo lui erano vissuti nella vana e illusoria glorificazione della simbiosi tedesca, e soltanto i sionisti se ne rendevano conto. Però allo stesso tempo criticava aspramente il sionismo, in quanto incapace di esser portatore di un radicale e necessario rinnovamento dell'ebraismo. L'intelligenza con la quale andava discutendo di questi terni lo porterà a esser riconosciuto come interlocutore dai maggiori personaggi del mondo intellettuale ebraico tedesco. Come Martin Buber, verso il quale Scholem aveva una fortissima devozione. Eppure, come da copione con Scholem, la devozione andava di pari passo con la critica feroce. Dopo un articolo nel quale lo attaccava duramente, Buber, anziché infuriarsi (con qualche ragione) invitò il giovane a casa sua. Scholem accettò. Aveva soltanto 18 anni ed era così esplicito da risultare scortese: parlava ininterrottamente, interrompeva spesso l'interlocutore, non sopportava il disaccordo. Una volta a casa di Buber, il figlio Raphael (che l'ha raccontato) vedendo questo giovane alto e allampanato che nello studio del padre urlava a squarciagola, fece per intervenire. Ma il padre lo fermò, e quando il turbolento visitatore se ne andò disse al figlio: “Quell'uomo si chiama Gersbom Schalem ed e destinato a diventare un grande studioso». Aveva visto lungo. Fra gli incontri del periodo giovanile c'è quello con Walter Benjamin: si erano conosciuti nel 1915 e subito la loro amicizia divenne un sodalizio. Scholem riconoscerà di aver trovato la sua strada solo grazie all'amico: ne era incantato, lo considerava un vero e propria genio, anche se ammetteva che spesso le sue idee gli apparivano oscure. Con lui non era mai altezzoso; i suoi scatti d'ira, tanto temuti da amici e parenti, di fronte a Benjamin svanivano - al punto che David Biale parla di una vera infatuazione, di "innamoramento" di Scholem. Di certo dopo che Benjamin si suiciderà nel 1940 per paura di finire in mani naziste, l'amico sarà fondamentale per la circolazione dei suoi scritti. Col tempo l'irrequietezza si placò e, fra il 1919 e il 1923, da brillante ed eclettico autodidatta, Scholem si trasformò in un rigoroso studioso di cabala. Trasferitosi a studiare a Monaco, in un arco di tempo incredibilmente breve si impadronì di un numero impressionante di fonti e di lingue. Trattava la cabala come problema filosofico, cercando di identificare lo statuto del mito e del panteismo nella più antica religione monoteistica del mondo contro tutti, si potrebbe dire, visto che i più importanti filosofi ebrei Ida Saadia Gaon e Maimonide nel Medioevo fino a Hermann Cohen nel Ventesimo secolo) ne avevano negato ogni ruolo. Gli storici avevano sempre disprezzato una lettura che non sottolineasse l'ebraismo come religione razionale; al contrario Scholem recuperava le fonti messianiche e mistiche, sottolineando la dimensione mitica dell'ebraismo che è fatta anche di paradossi e contraddizioni, di razionale e irrazionale. In poche parole strappava all'ebraismo la sua essenza dogmatica e dichiarava fondamentali per la sua comprensione elementi ritenuti eretici. Il repertorio a sostegno di queste tesi erano manoscritti, libri oscuri, testi magici un po' bizzarri, che per la prima volta iniziavano a essere considerati come oggetti di studio per l'ebraismo. Così, fra questi testi cabalistici, che venivano considerati una .coltre nebbiosa della storia» alla base della montagna della verità - che rischia di far impazzire colui che vi entra per salire verso la cima - Scholem si districa, trovando la via per passare indenne. Nel marzo del '22 si addottora ed è già considerato uno studioso di rango. Gli viene proposta una cattedra in Germania, ma lui rifiuta: aveva già deciso di emigrare in Palestina. A Gerusalemme, dove arriva nel 1923, lavora prima alla Biblioteca Nazionale e poi, due anni dopo, ottiene una cattedra all'università ebraica appena fondata. Però si sente «uno studioso germanico in giacca e cravatta» e non si trova a suo agio: l'integrazione è difficile, lamenta l'assurda «accozzaglia di gente” in cui si imbatte ed è disilluso dal clima politico e culturale dell'insediamento. Eppure rimase sempre lì, nella 'sua' Gerusalemme: anno dopo anno, libro dopo libro, diverrà il professore più influente e famoso dell'università. La sua figura divenne quella di un intellettuale pubblico, di riconosciuta autorità, interpellato anche su terni di attualità come una specie di oracolo su tutto ciò che riguardava l'ebraismo: i giornalisti facevano la fila di fronte alla sua casa invia Abravanel Attraversò il Novecento da li, in quella sua casa piena zeppa di libri: le pareti di tutte le stanze erano occupate dagli scaffali, lasciando il solo spazio vuoto all'Angelus novus di Paul Klee, il quadro che ispirò le tesi sulla storia di Benjamin. A questo proposito, nel 1937 pubblicò un piccolo libretto con intenzioni ironiche. Peccato che, con suo grandissimo dispiacere, l'uscita del libro ebbe come effetto immediato quello di far innalzare i prezzi dei volumi mancanti sul mercato degli antiquari. Fino all'ultimo non gli mancò lo spirito combattivo e il senso dell'umorismo. Nel 1975, durante una conferenza, sempre felice di provocare i colleghi più contegnosi, a chi gli chiedeva quale aspetto dell'ebraistica fosse più bisognoso di indagini rispondeva senza esitazione: «la storia dei criminali ebrei». Mori a Gerusalemme il 21 febbraio 1982. Nel cimitero di Sanhedria, la lapide sulla sua tomba io ricorda come indagatore della cabala, certo, ma anche come «un uomo della Terza Aliyah”. Un'indicazione di solito riservata ai pionieri che lavoravano la terra. Eppure se c'è qualcuno che più di chiunque altri ha scavato nelle terre tanto oscure quanto bistrattate del sapere ebraico, quello è stato Gershom Scholem.

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