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La Stampa - Corriere della Sera - La Repubblica Rassegna Stampa
10.04.2019 Israele Paese lacerato? Ecco i commenti che disinformano
I pezzi di parte di Giordano Stabile, Aldo Cazzullo, quello di Francesca Caferri demonizza lo Stato ebraico

Testata:La Stampa - Corriere della Sera - La Repubblica
Autore: Giordano Stabile - Aldo Cazzullo - Francesca Caferri
Titolo: «Tra gli arabi di Gerusalemme Est: 'Per noi non cambierà nulla' - Scandali e carisma, atto finale per Bibi - Muri d’Israele»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 10/04/2019, a pag.13 con il titolo "Tra gli arabi di Gerusalemme Est: 'Per noi non cambierà nulla' " il commento di Giordano Stabile; dal CORRIERE della SERA, a pag. 13, con il titolo "Scandali e carisma, atto finale per Bibi", il commento di Aldo Cazzullo; da REPUBBLICA, a pag. 6, l'articolo di Francesca Caferri "Muri d’Israele".

Le cronache pubblicate oggi su tutti i quotidiani non sono aggiornate con gli ultimi dati, che IC pubblica invece in home page. I tre maggiorni giornali generalisti pubblicano però tre commenti, che riprendiamo in questa pagina, pur non disponendo delle informazioni sull'esito delle elezioni.

A proposito degli arabi israeliani Giordano Stabile omette che in minor numero rispetto al 2015 si sono recati alle urne perché stanchi di votare parlamentari arabi che fanno esclusivamente i propri interessi personali, come nel caso di Hanin Zoabi. La minor partecipazione al voto degli arabi israeliani è da attribuire quindi alla perdita di fiducia nei confronti dei loro rappresentanti.

Francesca Caferri scrive un pezzo di completa disinformazione a proposito della metropolitana leggera di Gerusalemme, che unisce quartieri e persone diverse che vivono nella capitale di Israele: arabi ed ebrei, ultraortodossi, religiosi e laici, russi e orientali, askenaziti e sefarditi. Per Caferri diventa invece un simbolo di divisione e di incapacità di comunicare. Il titolo "Muri d'Israele" si inserisce nel solco della demonizzazione dello Stato ebraico.

Aldo Cazzullo riconosce le doti di leader di Benjamin Netayahu ma si dilunga, scegliendo di cavalcare il pettegolezzo e le accuse non comprovate, sui presunti scandali che coinvolgono il premier. Oggi Cazzullo segue lo stile di Repubblica, pur senza toccare le vette di disinformazione del quotidiano romano. Il titolo scelto dalla redazione, "Scandali e carisma, atto finale per Bibi ", è un atto d'accusa nei confronti di Netanyahu, esempio di giornalismo di infimo livello.

Ecco gli articoli:

LA STAMPA - Giordano Stabile: "Tra gli arabi di Gerusalemme Est: 'Per noi non cambierà nulla' "

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Giordano Stabile

Il richiamo del muezzin si mescola a quello dei venditori di biglietti delle lotteria lungo la Salahuddin, la strada principale di Gerusalemme Est. Gli appendiabiti dei negozi invadono i marciapiedi, camminare è uno slalom fra baracchini per il caffè e mercanzie di tutti i tipi. Ragazze con lo hijab, il velo che copre i capelli, ragazzi, magri e svelti, in maglietta e jeans.
Israele sembra lontana mille miglia. La bandiera blu e bianca con la stella di David sventola soltanto sulla caserma della polizia all’inizio della via, verso la Porta di Damasco, e sul ministero della Giustizia, che chiude la grande arteria con la sua mole imponente e l’alta cancellata. Il caffè Educational Bookshop è pieno come al solito, molti studenti universitari, altri che vanno al vicino Institut Français. I libri sugli scaffali accanto ai tavolini espongono autori palestinesi, e soprattutto storia. «Studiare è la nostra resistenza – spiega Amni, al secondo anno di Medicina, anche lei con il volto incorniciato nello hijab verde -. Delle elezioni in Israele non ce ne importa nulla. Io non posso votare. Ma anche se potessi non lo farei. È solo una sceneggiata. Chiunque vinca per noi non cambierà mai nulla». È una condizione comune ai «palestinesi del ‘67», cioè quelli che vivono nei territori conquistati da Israele nella Guerra dei Sei giorni. A Gerusalemme Est hanno una carta di identità che li rende residenti, ma non cittadini israeliani, a differenza dei «palestinesi del ‘48» che invece hanno il passaporto israeliano e possono votare.

La «missione»
«Ma non ci andranno neppure loro – confida Aimad Muna, il proprietario della libreria-caffè -. Ormai hanno capito che non serve a niente. Questa volta i partiti arabi, a parte uno credo, non si sono presentati». Tanto per chiarire, la password per il wi-fi è «jerusalem is ours», cioè Gerusalemme è nostra. I gerosolimitani palestinesi si sentono investiti di una missione particolare. Rappresentano il 40% della popolazione della municipalità, 350 mila su 850 mila abitanti. La loro stessa presenza, sentono, impedisce che l’annessione a Israele, dichiarata nel 1980, diventi irreversibile. «Siamo in prima linea nella lotta contro l’occupazione – conferma Rania Elias, direttrice dello Yabous Cultural Center, un punto di riferimento essenziale per tutto il quartiere -. È una lotta per preservare la nostra identità. Alle elezioni non ci crediamo e siamo convinti che nessuno debba partecipare. Il punto non è ottenere una “migliore occupazione”, più sopportabile, il punto è farla finire. La mia famiglia è di Betlemme, da vent’anni non può venirmi a trovare qui a Gerusalemme, proibito. Così siamo trattati».
Rania, come tanti palestinesi, non ha idea di come si possa ottenere. Ma sa con certezza quello che non funziona. «Il processo di Oslo è morto – continua –. A noi palestinesi non ha portato nulla, solo più insediamenti e una piccola area che amministriamo per conto di Israele. In pratica facciamo i poliziotti per conto loro. Serve una nuova leadership». Quanto alla controparte, non vede differenze fra Benny Gantz e Benjamin Netanyahu: «Ormai la scelta è fra destra ed estrema destra e anche gli arabo-israeliani lo hanno capito».

«La pace è in pericolo»
L’affluenza nelle città arabe è stata di almeno tre punti inferiore rispetto a cinque anni fa, tanto che il leader del partito della coalizione Hadash-Taal, Ahmad Tibi, ha accusato il governo di «intimidire» gli elettori arabi, anche con attivisti del Likud che fotografano le persone ai seggi, cosa vietata. L’idea di alcuni leader arabi di boicottare le urne per protesta è però considerata un «grave errore» da Bassem Khoury, ex ministro dell’Economia, imprenditore e amministratore delegato del Pharmacare Group. «La campagna di boicottaggio –spiega – è stata lanciata da Netanyahu perché sa che se gli arabo-israeliani votassero in massa otterrebbero 15 seggi e per lui sarebbe complicato formare una maggioranza».
Ma cambierebbe qualcosa per i palestinesi? «Questo governo è una minaccia serissima – ribatte -. In forza dell’appoggio di Trump, Netanyahu ha perso ogni freno inibitorio. La pace è in pericolo. Con Gantz avremmo qualche speranza. Purché non gli facciano fare la fine di Rabin, assassinato, o di Olmert, distrutto dagli scandali a orologeria».

CORRIERE della SERA - Aldo Cazzullo: "Scandali e carisma, atto finale per Bibi"

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Aldo Cazzullo

Altri quattro anni al governo? Oppure il processo e forse il carcere? È una notte grandiosa e terribile, per Benjamin «Bibi» Netanyahu. I suoi avversari speravano che una fornitura vitalizia di champagne alla first lady — «la signora Sara lo preferisce rosé, Dom Pérignon mi raccomando» — avrebbe cambiato la storia del Medio Oriente. Ma più degli scandali forse hanno potuto le spoglie di un soldato ucciso 37 anni fa in Siria, il sergente Zacharia Baumel, restituite a Netanyahu da Putin in persona. Un gesto dal forte impatto simbolico su un popolo che ha il senso del sacrificio e della memoria. E anche un messaggio politico: Israele non è isolato; gli americani hanno portato l’ambasciata a Gerusalemme, i russi attestati a Damasco non sono ostili; perché cambiare? In bilico tra la caduta e il record del quinto mandato — che ne farebbe il premier più longevo, superando David Ben-Gurion fondatore dello Stato —, Bibi stasera conferma la sua centralità. Non ha stravinto; il rivale, Benny Gantz, è alla pari, forse in vantaggio; ma per ora l’unico che può formare un governo sembra ancora lui. Tutta la sua politica, del resto, si fonda sull’alternanza tra la paura e la forza. Israele è accerchiata dal nemico iraniano, che prepara l’atomica e nel frattempo arma, addestra, finanzia Jihad e Hamas a Sud, Hezbollah a Nord, il regime di Assad a Est. Ma Israele non è mai stata così sicura da quando Netanyahu dialoga con i satrapi del Medio Oriente, da Al Sisi ai sauditi, e stringe accordi con i potenti del mondo. Con Putin parla in russo, la lingua della madre; il padre era polacco. Da ragazzo, Benjamin di cognome si chiamava Mileikowski; in America divenne Netanyahu, che in ebraico significa dono di Dio. Americana è la sua formazione. Con Obama si sono detestati. Bibi si è dato la missione di resistergli; ce l’ha fatta. Ora Obama tiene conferenze, lui ha trovato un presidente che lo capisce. Trump ha riconosciuto la sovranità israeliana sul Golan («abbiamo fatto bene a tenercelo, i siriani ci avrebbero bombardati dall’alto e soprattutto non avrebbero mai fatto un cabernet-sauvignon come il nostro» ti dicono sorridendo nei bar dove si seguono le prime proiezioni elettorali). E ora Trump appoggerà l’annessione di parte della Cisgiordania. Netanyahu, a parte l’innegabile carisma, è anche un uomo molto odiato. L’inchiesta più chiacchierata è quella sui regali, dallo champagne per la moglie ai sigari per lui, rigorosamente Cohiba Siglo V, i preferiti di Castro: Bibi ne ha ricevuti tanti che potrebbe fumare per 3.240 ore di fila, 135 giorni. E poi gioielli, viaggi aerei, pure biglietti per il concerto di Mariah Carey, che una famiglia con un patrimonio di 14 milioni di dollari si sarebbe tranquillamente potuta permettere. Tra i donatori più munifici, Arnon Milchan, il produttore di Pretty Woman, americano nato in Israele, che avrebbe ispirato a Netanyahu la legge per abbattere le tasse ai miliardari di ritorno in patria. Ma sono più gravi le altre due inchieste che incombono. Il premier è accusato di scambiare favori con l’editore di Yedioth Ahronoth, il quotidiano più importante, e con il gigante delle telecomunicazioni Bezeq, proprietario di un sito web certo non ostile. Il procuratore generale che ha incriminato Bibi dopo essere stato suo capo di gabinetto, Avichai Mandelblit, ha subìto pressioni terribili: i nemici di Netanyahu l’hanno quasi aggredito all’ingresso della sinagoga dove andava a pregare per la madre morta; mentre la profanazione della tomba del padre è stata attribuita ai sostenitori del premier. In rete la battaglia è accesissima. La dirige il figlio Yair Netanyahu, che ieri per tutta la giornata ha lanciato un falso allarme — «non vedo mobilitazione…» — per motivare gli elettori del Likud. In passato Yair è stato bloccato da Facebook per incitazione all’odio verso i palestinesi. A differenza di Moshe Dayan, che aveva pianto raccontando a Sadat la morte in guerra del fratello Zorik, Bibi non ha mai esorcizzato il dolore, non ha mai perdonato agli arabi la sorte del fratello Yonatan, caduto a Entebbe alla testa del commando che liberò 102 ostaggi ebrei. Detto questo, Netanyahu resta il capo che meglio interpreta lo spirito del suo popolo in questo tempo. È anche il primo leader israeliano a non cercare la pace. A fare la pace con l’Egitto fu un premier di destra come Menachem Begin. Ma la prima volta in cui fu eletto, nel 1996, Bibi fece di tutto per non applicare gli accordi di Oslo. Alla vigilia delle scorse elezioni rovesciò i sondaggi proclamando che con lui non sarebbe mai nato uno Stato palestinese. Stavolta ha annunciato l’annessione di parte della Cisgiordania, assicurandosi gli elettori degli insediamenti. Basta una passeggiata nella periferia di Gerusalemme Est, dove ortodossi e pionieri laici fronteggiano il mare arabo, per ricordarsi quanto il Paese si senta in bilico, e quindi coltivi un’identità fortissima. Certo il clima non è quello della guerra del 1967, quando si temevano decine di migliaia di morti, i campi incolti venivano requisiti e benedetti per farne cimiteri, e Radio Damasco gracchiava: «Con le budella dell’ultimo soldato imperialista impiccheremo l’ultimo colono sionista». Ma lo spirito è rimasto lo stesso del discorso di trenta secondi che all’alba del 5 giugno il maggiore Yosef Salat, comandante della prima squadriglia spedita al Cairo a bombardare l’aviazione egiziana, tenne ai suoi uomini: «Siede con voi in cabina di pilotaggio il popolo di Israele, intere generazioni di ebrei, ognuno dei quali confida che farete del vostro meglio». Tre ore dopo, l’aviazione egiziana non esisteva più. Damasco si affrettò a nascondere i suoi caccia al confine con l’Iraq, fuori portata da quelli con la stella di Davide. Il comandante dell’esercito, Mordechai «Motti» Hod, guardò senza muovere un muscolo il suo capo di stato maggiore e gli disse: «Abbiamo vinto la guerra». Il mattino del terzo giorno i parà entrarono a Gerusalemme dalla Porta del Leone e salirono al Muro del Pianto. Il quarto giorno Dayan prese il Sinai. Il sesto cadde la cima più alta del Golan. Il capo di Stato maggiore si chiamava Yitzhak Rabin, e il suo sogno di pace fu infranto da un assassino ebreo, Yigal Amir, chiuso da 24 anni in una cella con la luce accesa anche di notte, senza mai pentirsi. Le successive elezioni le vinse Netanyahu. Non si comprende la sua lunga stagione senza sentire nell’aria l’eco di secoli di umiliazioni, molto più antiche della Shoah: i russi sfuggiti ai pogrom, gli ebrei di Palestina cui gli ottomani vietavano di andare a cavallo o a cammello: potevano montare asini, mai però a cavalcioni, solo con le gambe da una parte; i viaggiatori occidentali scrivevano allibiti che il gioco preferito dei bambini arabi era prendere a sassate i coetanei ebrei, e chiunque poteva sputare addosso a un ebreo senza che lui reagisse. Ora a sentirsi umiliati, ovviamente in altre forme, sono i palestinesi. Sia quelli di passaporto israeliano, che hanno disertato le urne, sia quelli della Cisgiordania oggi occupata e domani forse annessa. Mai isolati come ora, abbandonati dai «fratelli arabi» che li hanno usati e ingannati. Se Netanyahu o Gantz volessero passare alla storia come uomini di pace, potrebbero trovare lo scatto che riuscì a un altro falco, Sharon, quando si ritirò da Gaza. Ma a osservare i volti rassegnati dei camerieri di Jaffa e degli ambulanti di Gerusalemme, qui nessuno si aspetta più nulla; tantomeno quella cosa — patria, dignità, fierezza — che sarebbe riduttivo chiamare pace, ma fa pensare semmai a una donna molto amata, che non è venuta, non viene, non verrà.

LA REPUBBLICA - Francesca Caferri : "Muri d’Israele"

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Francesca Caferri

Di fronte alla scuola di Bayit Vagan, nella zona Sudoccidentale di Gerusalemme, Benjamin Yehoshua, 22 anni, non ha dubbi. All’apertura dei seggi è stato fra i primi a votare: “Otsma Yeudith” risponde quando gli si chiede chi abbia scelto. Far notare che si tratta di un partito razzista, che invoca la cacciata degli arabi non serve a niente. «Facciamo quello che ci dice la Torah. Se la Torah dice di cacciare gli arabi non discutiamo», risponde. Da queste parti a pensarla come lui sono parecchi. Poco importa che gli arabi di cui Benjamin e i suoi amici parlano con tanto disprezzo abitino a pochi chilometri da qui: ai ragazzi basterebbe salire sulla metropolitana di superficie che si ferma alle spalle della scuola per vederli e provare a capirli ma non hanno intenzione di farlo. Ed è un peccato perché se invece si vuole comprendere il voto in Israele, un giro sulla Light rail, il trenino che collega le diverse aree della Città santa, è molto istruttivo. Viaggiare su questi vagoni è viaggiare nel cuore della questione israelo-palestinese, nelle diverse anime della società israeliana, nella rabbia e nella rassegnazione degli arabi di Gerusalemme. Se in ogni città infatti, la zona in cui si vive è anche segno di appartenenza sociale e politica, in pochi altri luoghi la divisione è così estrema: interi quartieri sono off limits per chi non appartiene a una determinata religione o addirittura a una a setta di quella stessa religione. Oltre la porta di Damasco, ingresso della parte araba della città in cui è nato e vive, 20 minuti da casa, Benjamin non è mai andato. A sette fermate da dove abita il ragazzo c’è Mahane Yehuda, il mercato più famoso di Gerusalemme: qui Netanyahu ha una delle sue roccaforti. Fra questi banchi ha chiuso la campagna: «Bibi è Israele. Gli altri regaleranno le nostre terre agli arabi. Solo lui può garantire la sicurezza», dice Assi mentre serve frutta con indosso una maglietta del Likud. Se si prova a obiettare che di sicurezza anche lo sfidante Benny Gantz, ex Capo di Stato maggiore, ne sa qualcosa, è sprezzante. «È buono solo per quelli di Tel Aviv». A poca distanza da lui c’è Chen Shaler, 22 anni, barista in un chiosco di cocktail. Non è di Tel Aviv, ma di Gerusalemme: eppure ha votato Gantz. «Voglio un Paese migliore, diverso», afferma. Tanti giovani la pensano come lei, anche se il cambiamento ha facce diverse: Jaffa-Center è la fermata che incrocia Ben Yehuda street, dove negli ultimi anni sono fioriti negozi alla moda e ristoranti. È una zona piena di ragazzi e a farla da padrone è Zehut, il partito di Moshe Feiglin, l’uomo che sogna di ricostruire il Terzo Tempio ma si presenta come quello che vuole liberalizzare la marijuana. Rotem Klein, insegnante di 28 anni, lo sostiene: «Saremo l’ago della bilancia. Entreremo nel governo solo con chi ci garantirà la liberalizzazione della marijuana», dice. Come se questo fosse il Colorado o l’Oregon e non un Paese costantemente sull’orlo di una guerra. Bastano due fermate per mettere a fuoco: si scende alla porta di Damasco, si entra nella città araba e si scopre che è un giorno come gli altri: nessun seggio, nessun manifesto elettorale. Qui vive buona parte dei 220mila arabi di Gerusalemme, che alle elezioni politiche non hanno diritto di voto perché, essendo residenti nelle zone occupate nel 1967, non hanno la cittadinanza. «Se anche potessi, non andrei — dice Mohammad Julani, gestore di un negozio di abbigliamento. Gli israeliani parlano di pace ma non la vogliono. Chiunque vinca non farà nessuna differenza». Il negozio è a poca distanza dalla vecchia linea verde, quella che prima del 1967 divideva Israele dalla Cisgiordania. Oggi dove c’era il confine corrono i binari della metro. A destra la zona araba, a sinistra Meit Shalev, il quartiere degli ebrei haredim, i più conservatori fra gli ultraortodossi, quelli che non riconoscono altra legge se non quella di Dio. E dunque non votano. Fare domande è inutile: con i loro grandi cappelli neri e i riccioli sulle orecchie gli haredim alle donne non parlano. La ex Linea verde è una zona di tensioni e per questo i controlli sono più intensi che altrove. Ma oggi è il treno corre tranquillo fino al capolinea di Pisgat Zeev, insediamento nella parte occupata nel 1967, un altro dei feudi del Likud: «Con Bibi siamo sicuri. È uno statista. Sa come proteggerci. Gli altri sono pronti a venderci agli arabi», dice Rachel Biton, da 20 anni residente qui. Una frase che dà il segno della paura e della tensione che hanno segnato la campagna elettorale. E che comunque vada non scompariranno.

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Altri quattro anni al governo? Oppure il processo e forse il carcere? È una notte grandiosa e terribile, per Benjamin «Bibi» Netanyahu. I suoi avversari speravano che una fornitura vitalizia di champagne alla first lady — «la signora Sara lo preferisce rosé, Dom Pérignon mi raccomando» — avrebbe cambiato la storia del Medio Oriente. Ma più degli scandali forse hanno potuto le spoglie di un soldato ucciso 37 anni fa in Siria, il sergente Zacharia Baumel, restituite a Netanyahu da Putin in persona. Un gesto dal forte impatto simbolico su un popolo che ha il senso del sacrificio e della memoria. E anche un messaggio politico: Israele non è isolato; gli americani hanno portato l’ambasciata a Gerusalemme, i russi attestati a Damasco non sono ostili; perché cambiare? In bilico tra la caduta e il record del quinto mandato — che ne farebbe il premier più longevo, superando David Ben-Gurion fondatore dello Stato —, Bibi stasera conferma la sua centralità. Non ha stravinto; il rivale, Benny Gantz, è alla pari, forse in vantaggio; ma per ora l’unico che può formare un governo sembra ancora lui. Tutta la sua politica, del resto, si fonda sull’alternanza tra la paura e la forza. Israele è accerchiata dal nemico iraniano, che prepara l’atomica e nel frattempo arma, addestra, finanzia Jihad e Hamas a Sud, Hezbollah a Nord, il regime di Assad a Est. Ma Israele non è mai stata così sicura da quando Netanyahu dialoga con i satrapi del Medio Oriente, da Al Sisi ai sauditi, e stringe accordi con i potenti del mondo. Con Putin parla in russo, la lingua della madre; il padre era polacco. Da ragazzo, Benjamin di cognome si chiamava Mileikowski; in America divenne Netanyahu, che in ebraico significa dono di Dio. Americana è la sua formazione. Con Obama si sono detestati. Bibi si è dato la missione di resistergli; ce l’ha fatta. Ora Obama tiene conferenze, lui ha trovato un presidente che lo capisce. Trump ha riconosciuto la sovranità israeliana sul Golan («abbiamo fatto bene a tenercelo, i siriani ci avrebbero bombardati dall’alto e soprattutto non avrebbero mai fatto un cabernet-sauvignon come il nostro» ti dicono sorridendo nei bar dove si seguono le prime proiezioni elettorali). E ora Trump appoggerà l’annessione di parte della Cisgiordania. Netanyahu, a parte l’innegabile carisma, è anche un uomo molto odiato. L’inchiesta più chiacchierata è quella sui regali, dallo champagne per la moglie ai sigari per lui, rigorosamente Cohiba Siglo V, i preferiti di Castro: Bibi ne ha ricevuti tanti che potrebbe fumare per 3.240 ore di fila, 135 giorni. E poi gioielli, viaggi aerei, pure biglietti per il concerto di Mariah Carey, che una famiglia con un patrimonio di 14 milioni di dollari si sarebbe tranquillamente potuta permettere. Tra i donatori più munifici, Arnon Milchan, il produttore di Pretty Woman, americano nato in Israele, che avrebbe ispirato a Netanyahu la legge per abbattere le tasse ai miliardari di ritorno in patria. Ma sono più gravi le altre due inchieste che incombono. Il premier è accusato di scambiare favori con l’editore di Yedioth Ahronoth, il quotidiano più importante, e con il gigante delle telecomunicazioni Bezeq, proprietario di un sito web certo non ostile. Il procuratore generale che ha incriminato Bibi dopo essere stato suo capo di gabinetto, Avichai Mandelblit, ha subìto pressioni terribili: i nemici di Netanyahu l’hanno quasi aggredito all’ingresso della sinagoga dove andava a pregare per la madre morta; mentre la profanazione della tomba del padre è stata attribuita ai sostenitori del premier. In rete la battaglia è accesissima. La dirige il figlio Yair Netanyahu, che ieri per tutta la giornata ha lanciato un falso allarme — «non vedo mobilitazione…» — per motivare gli elettori del Likud. In passato Yair è stato bloccato da Facebook per incitazione all’odio verso i palestinesi. A differenza di Moshe Dayan, che aveva pianto raccontando a Sadat la morte in guerra del fratello Zorik, Bibi non ha mai esorcizzato il dolore, non ha mai perdonato agli arabi la sorte del fratello Yonatan, caduto a Entebbe alla testa del commando che liberò 102 ostaggi ebrei. Detto questo, Netanyahu resta il capo che meglio interpreta lo spirito del suo popolo in questo tempo. È anche il primo leader israeliano a non cercare la pace. A fare la pace con l’Egitto fu un premier di destra come Menachem Begin. Ma la prima volta in cui fu eletto, nel 1996, Bibi fece di tutto per non applicare gli accordi di Oslo. Alla vigilia delle scorse elezioni rovesciò i sondaggi proclamando che con lui non sarebbe mai nato uno Stato palestinese. Stavolta ha annunciato l’annessione di parte della Cisgiordania, assicurandosi gli elettori degli insediamenti. Basta una passeggiata nella periferia di Gerusalemme Est, dove ortodossi e pionieri laici fronteggiano il mare arabo, per ricordarsi quanto il Paese si senta in bilico, e quindi coltivi un’identità fortissima. Certo il clima non è quello della guerra del 1967, quando si temevano decine di migliaia di morti, i campi incolti venivano requisiti e benedetti per farne cimiteri, e Radio Damasco gracchiava: «Con le budella dell’ultimo soldato imperialista impiccheremo l’ultimo colono sionista». Ma lo spirito è rimasto lo stesso del discorso di trenta secondi che all’alba del 5 giugno il maggiore Yosef Salat, comandante della prima squadriglia spedita al Cairo a bombardare l’aviazione egiziana, tenne ai suoi uomini: «Siede con voi in cabina di pilotaggio il popolo di Israele, intere generazioni di ebrei, ognuno dei quali confida che farete del vostro meglio». Tre ore dopo, l’aviazione egiziana non esisteva più. Damasco si affrettò a nascondere i suoi caccia al confine con l’Iraq, fuori portata da quelli con la stella di Davide. Il comandante dell’esercito, Mordechai «Motti» Hod, guardò senza muovere un muscolo il suo capo di stato maggiore e gli disse: «Abbiamo vinto la guerra». Il mattino del terzo giorno i parà entrarono a Gerusalemme dalla Porta del Leone e salirono al Muro del Pianto. Il quarto giorno Dayan prese il Sinai. Il sesto cadde la cima più alta del Golan. Il capo di Stato maggiore si chiamava Yitzhak Rabin, e il suo sogno di pace fu infranto da un assassino ebreo, Yigal Amir, chiuso da 24 anni in una cella con la luce accesa anche di notte, senza mai pentirsi. Le successive elezioni le vinse Netanyahu. Non si comprende la sua lunga stagione senza sentire nell’aria l’eco di secoli di umiliazioni, molto più antiche della Shoah: i russi sfuggiti ai pogrom, gli ebrei di Palestina cui gli ottomani vietavano di andare a cavallo o a cammello: potevano montare asini, mai però a cavalcioni, solo con le gambe da una parte; i viaggiatori occidentali scrivevano allibiti che il gioco preferito dei bambini arabi era prendere a sassate i coetanei ebrei, e chiunque poteva sputare addosso a un ebreo senza che lui reagisse. Ora a sentirsi umiliati, ovviamente in altre forme, sono i palestinesi. Sia quelli di passaporto israeliano, che hanno disertato le urne, sia quelli della Cisgiordania oggi occupata e domani forse annessa. Mai isolati come ora, abbandonati dai «fratelli arabi» che li hanno usati e ingannati. Se Netanyahu o Gantz volessero passare alla storia come uomini di pace, potrebbero trovare lo scatto che riuscì a un altro falco, Sharon, quando si ritirò da Gaza. Ma a osservare i volti rassegnati dei camerieri di Jaffa e degli ambulanti di Gerusalemme, qui nessuno si aspetta più nulla; tantomeno quella cosa — patria, dignità, fierezza — che sarebbe riduttivo chiamare pace, ma fa pensare semmai a una donna molto amata, che non è venuta, non viene, non verrà.
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