Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 07/04/2019, con il titolo "Non aveva paura di nulla, voleva sempre coinvolgersi: 'Tutto è importante' ", l'analisi di Antonio Monda.
Susan Sontag (NY 1933 - NY 2004) è stata uno degli intellettuali americani che maggiormente ha influenzato la cultura occidentale del secolo scorso. È stata spesso al centro di polemiche per i giudizi inaspettati provenienti da una personalità di sinistra, eppure coraggiosamente indipendente. In un pezzo sul New York Times del 1982, è stata protagonista di un clamoroso intervento durante una conferenza a New York, in cui definì il comunismo “il fascismo che ha avuto successo”, scandalizzando gli intellettuali della sinistra ubbidienti agli ordini della ideologia marxista che veneravano come imponeva la fede comunista, un fenomeno non solo americano ma soprattutto europeo e anche italiano.
Ecco l'articolo:
Antonio Monda
Susan Sontag
C’è una celebre fotografia, scattata da Diane Arbus nel 1965, che ne immortala in maniera folgorante la personalità imprescindibile, gli spasmi e le contraddizioni. Stavo per scrivere la parola anima, ma non so come Susan la prenderebbe: forse le piacerebbe, ma avvierebbe una discussione, finendo certamente per avere ragione sul modo nel quale intendere il termine. Non c’era nulla di semplice, in Susan Sontag, e nulla che potesse essere trattato con superficialità. L’essenzialità che raggiungeva nei suoi scritti era frutto di una lunga e raffinata elaborazione intellettuale, che nasceva da un’intelligenza fuori del comune. E quell’immagine riesce a intuire qualcosa di profondo: Susan è raffigurata assieme al figlio David in un parco cittadino, raggelato dall’inverno. Appoggia il capo su quello del piccolo e lo abbraccia con la mano destra, mentre tiene la sinistra in tasca. C’è un grande amore, in quel gesto, ma il punctum, come lei spiegava citando Roland Barthes, il punto della foto che dà armonia e senso all’immagine, è nello sguardo: fissa l’obiettivo esprimendo dolcezza e certezza, persino un senso di sfida. Susan sapeva ascoltare e recepire come pochi, rivelando a volte una sorprendente umiltà di apprendimento, ma quando si esprimeva era assertiva sino alla solennità, come è evidente anche dai suoi titoli: Contro l’interpretazione; Così viviamo ora; Davanti al dolore degli altri. Credo che ciò che l’abbia spinta a onorarmi della sua amicizia fosse in primo luogo la simpatia per mia moglie Jacquie, con cui parlava della Giamaica, la sua terra di origine, e per la mia famiglia multicolore: uno dei suoi saggi che scatenò maggiori polemiche fu quello in cui definì sul Partisan Review l’intera razza bianca come «un cancro», e negli anni in cui un politico nostrano fece una triste dichiarazione sul meticciato si affezionò in particolare a nostro figlio Ignazio, orgogliosamente nero. Rivelo questi dettagli familiari perché era lei la prima a ritenere inseparabile l’esperienza privata da quella con cui ci presentiamo in pubblico. «Quante illusioni nascono dal tentare questa separazione», ripeteva, ma poi era contraddittoria, non avendo ad esempio alcun piacere di parlare della propria relazione con Annie Leibowitz. Una volta le chiesi un’intervista su un suo libro, ma prima di iniziare si sfogò a lungo su una giornalista italiana che l’aveva definita un’unione omosessuale. A Susan non interessava né smentire né commentare, ma sigillare quell’articolo come un simbolo della decadenza della stampa a pettegolezzo e sensazionalismo. Era impressionante la preparazione con cui seguiva le vicende politiche di ogni Paese, e l’Italia aveva un posto speciale: non lo ammetterebbe mai, ma nei confronti della nostra storia provava un senso di inferiorità culturale, al quale reagiva conoscendo la nostra cultura in maniera molto più profonda e stimolante di tanti nostri esperti. Era una donna complessa, difficile, a volte estremamente spinosa, ma capace di gesti di straordinaria generosità. Era curiosa di tutto, a cominciare dai sentimenti, come scrive sul diario a sedici anni, poche ore dopo aver avuto un rapporto sessuale con una ragazza: «So quello che voglio fare della mia vita, tutto ciò che per me in passato è stato così difficile capire adesso è così semplice. Voglio andare a letto con molte persone - voglio vivere e aborro la morte -, non insegnerò e non prenderò un master dopo la laurea… non intendo lasciarmi dominare dall’intelletto, e l’ultima cosa che desidero è idolatrare il sapere o chi lo possiede! Mi coinvolgerò appieno… tutto è importante!». Non so se Susan sia riuscita a non lasciarsi dominare dall’intelletto o dall’idolatria del sapere, ma quello che colpisce è l’importanza che attribuisce a ogni dettaglio della esperienza umana. La sua intelligenza, folgorante e mai conformista, intimidiva, e la sua curiosità la portava ad abbattere le differenze tra highbrow e lowbrow, arte nobile e popolare: il suo rivoluzionario Notes on Camp nasce proprio da questo approccio. Nonostante fosse tra i critici più ammirati del mondo, amava cimentarsi come autrice di narrativa e anche di film: con la parziale eccezione del romanzo L’amante del vulcano, non ottenne mai gli stessi risultati, e ne soffriva, senza mai ammetterlo. Seguiva con passione l’evoluzione del cinema italiano, specie quello nato negli anni 60: Bertolucci, Olmi, i Taviani e Bellocchio, del quale ammirava profondamente I pugni in tasca. Una volta discussero a lungo delle rispettive esperienze nel ’68, e poi di Lula, eletto da poco presidente del Brasile: ne seguiva l’ascesa con grande disincanto, e rivelò una preparazione sorprendente sulla situazione interna, sui suoi avversari, e sui problemi storici del Paese. I suoi interventi politici erano perenne fonte di polemica: si rifiutò di definire «vigliacchi» gli attentatori dell’11 settembre, sostenendo che era l’unica cosa che non si potesse affermare. Il commento più velenoso lo fece, come sempre, Gore Vidal («Susan ha dimostrato di avere un cuore coraggioso, ma meglio non esprimersi sul cervello»), ma lei andò avanti, anche in quei giorni di sgomento e lutto, argomentando con una lucidità che feriva. Susan il coraggio lo ha dimostrato in ogni momento, andando di persona a Sarajevo durante la guerra, e difendendo per prima Salman Rushdie quando subì la fatwa. Sembrava che non avesse paura di nulla, ma aveva anche lei bisogno di riconoscimenti, e nei rari momenti in cui mostrava le proprie fragilità, per un riflesso che non riusciva a controllare, parlava del rapporto complesso con la madre Mildred, in egual misura distante e possessiva, e con il padre Jack, un commerciante di pellami morto quando lei aveva cinque anni. Solo dodici anni dopo aveva sposato lo scrittore Philip Rieff, prima di mettersi a studiare a Chicago con Leo Strauss. Nacque in quegli anni l’amicizia con una personalità diversissima come Mike Nichols: ne parlava con un affetto pieno di ammirazione, proprio perché avevano finito per prendere strade del tutto differenti. Amava parlare dei propri testi: non si trattava di narcisismo, ma della convinzione che ogni cosa fosse migliorabile e incompleta. Cercava il cuore di ogni esperienza, ed è per questo che parlava spesso del dolore, inevitabile come la morte. E si tormentava, rimanendo tuttavia lucida, sul fatto che intere civiltà avessero il sangue nelle proprie fondamenta, interrogandosi sul rapporto tra i massacri con cui si erano affermate e lo splendore dei risultati: «Questo male fa parte della nostra essenza fragile», spiegava. L’ultima volta che l’ho vista mi regalò il libro realizzato assieme alla Leibowitz: «Ci sono delle foto straordinarie», mi disse. Non so cosa avrebbe pensato delle immagini che la fotografa pubblicò nel libro successivo, che la ritraggono sul suo letto di morte, incosciente e deformata dai farmaci. Forse avrebbe detto, semplicemente, «tutto è importante».
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