Marta Ottaviani
Una città spenta, dove la crescita economica è un ricordo e dove, mai come questa volta, la gente andrà a votare mettendosi una mano non sul cuore, ma sul portafoglio.
La Istanbul che ha visto Erdogan iniziare la sua carriera come sindaco, domani alle amministrative potrebbe decidere di fare una brutta sorpresa all’Akp, il partito del presidente, che domina la scena politica da 16 anni.
Il kebab di Erdogan
Inflazione e complotti
Erdogan lo sa, e per questo, da oltre un mese ha fatto installare 50 tendoni, dove si vende frutta e verdura a prezzo calmierato e dove, sotto la scritta «Enflasyonla Topyekün Mücadele»,ossia «lotta totale all’inflazione», si legge «Türkiye Kazanacak», «la Turchia vincerà». Sottinteso: la Turchia vincerà contro le potenze occidentali che stanno cercando di ridurla allo stremo con la crisi economica. La campagna in questione va vanti dallo scorso agosto, quando lo scontro a distanza fra Recep Tayyip Erdogan e Donald Trump ha fatto finire fuori controllo il cambio della lira turca con il dollaro e l’inflazione. Il presidente due giorni fa è tornato a chiedere di andare a votare per sconfiggere chi vuole mettere la Turchia in un angolo. Ma questa volta, nemmeno le teorie complottiste che qui piacciono tanto sembrano fare dimenticare le preoccupazioni economiche. Nel tendone del comune di Istanbul ad Aksaray, uno dei quartieri che registra la maggiore presenza di rifugiati siriani, il disagio è palpabile. Qualcuno trova il coraggio di dare direttamente la colpa al presidente Erdogan e soprattutto al suo genero, Berat Albayrak, ministro delle Finanze percepito come incompetente. Anche la solidarietà nei confronti di quelli che fino a poco tempo fa erano i «fratelli siriani» che scappavano dalla guerra sembra essere in calo costante. «La verità è che adesso stiamo male come loro – spiega Fatma, in coda per comprare riso e verdura -. I siriani che sono qui pesano su di noi e portano via il lavoro con mano d’opera a basso costo. Anche quelli che diventano ricchi, il lavoro lo danno solo ai siriani, a noi turchi non rimane in tasca niente».
I conti non tornano
Del resto, i numeri parlano chiaro. Una ricerca condotta dalla Kadir Has Universitesi, indica che al primo posto nelle preoccupazioni dei turchi c’è il caro bolletta, con il 33%, al secondo posto c’è l’istruzione, con il 16%, e al terzo la mancanza di democrazia, con il 14%. Il terrorismo, la vera ossessione del presidente insieme con i complotti internazionali da dopo il golpe fallito del 2016, rappresenta un problema per appena il 3% degli intervistati.
La fatica della capitale
Istanbul arranca. Nella città più cara della Turchia, gli stipendi si sono svalutati di oltre il 25% in un anno, il prezzo dell’energia è aumentato 5 volte in pochi mesi. Le banche hanno attuato una stretta sul credito molto forte e a risentirne per primi sono stati gli imprenditori, soprattutto quelli che importano e che devono fare i conti con un cambio fuori controllo da mesi. Nei negozi la scritta «taksit», ossia «rata», che era stata il vero motore di una crescita economica puntata troppo sul consumo interno e sul credito, è scomparsa. Ora al suo posto c’è «indirim», «sconto». Arrivano anche al 70%. Si paghi poco, ma si paghi subito, insomma. In un bisogno di liquidità che si percepisce ovunque. I turisti, arabi e russi, fanno festa. I negozianti si chiedono quanto potranno andare avanti. Persino le colorate e chiassone meyhane, le trattorie di Istanbul, fuori dai circuiti prediletti dai nuovi turisti della Mezzlauna, chiedono di prenotare un tavolo sul presto. Se non ci sono clienti, si chiude la cucina. Sognando che tornino presto i visitatori europei.
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