Riprendiamo oggi, 13/03/2019, a pag.14, da NAZIONE/CARLINO/GIORNO, con il titolo "L'epopea di Joe Nissim, re dei marchi", il commento di Guido Bandera.
Joseph Nissim non avrebbe gradito, dopo una vita riservata nonostante le intuizioni da grande industriale, articoli su di sè. La sua è una figura di combattente contro il nazifascismo e uomo concreto, mai interessato ad apparire, ha creato marchi famosi in tutto il mondo.
Ecco l'articolo:
Joseph Nissim
JOE NISSIM se n'è andato. A cent'anni l'ultimo dei tycoon dell'età gloriosa del capitalismo lombardo si è spento. Era il collezionista di marchi di consumo, dal Vetril al tonno Rio Mare, dalla carne Simmenthal all'appretto col manico. Generazioni di consumatori hanno comprato i suoi prodotti, senza sapere che dietro alla Bolton, dietro a quei nomi celebri e a gli slogan che ne reclamizzavano la qualità c'era lui, con il suo istinto innato di pubblicitario e capitano d'azienda.
DI MILANESE aveva il fiuto innegabile per gli affari, per la modernità e per l'innovazione. L'idea che l'impresa sia anche cultura, mecenatismo. Ma soprattutto la discrezione. Quasi l'ossessione di non apparire: non un'intervista. Rarissime immagini. Eppure questo campione di stile meneghino non era milanese di origini. Nato in seno alla comunità ebraica di Salonicco, negli anni in cui l'Italia e la Germania nazista piegarono la Grecia, si salvò arruolandosi da luogotenente nella Brigata Greca dell'Ottava Armata del Generale Montgomery. Paracadutista in Nord Africa, contro Rommel e gli italiani. A guerra finita, con al petto la croce d'oro al valore militare insignita da re Giorgio II di Grecia, sbarcò nella `sua' Milano. Era il 1947. Nell'ex Paese nemico si trovò «subito come a casa, l'Italia era una Grecia più accogliente, gentile ed evoluta». Pronta a rinascere sul modello del consumo made in Usa. Così, l'ex componente delle forze speciali britanniche converte l'istinto di adattamento dei militari in quello di un imprenditore capace di anticipare il mercato come pochi. Mette in piedi un'attività di import-export che con gli anni diventa il gruppo Bolton di oggi. Non una semplice fabbrica, ma una collezione di marchi, «i prodotti di prima necessità, quelli di cui tutti hanno bisogno». E allora arrivano il tonno, ma anche la carne in scatola, i detersivi che non mancano quasi in nessuna casa italiana. E poi cosmetici, saponi, adesivi. Tutti entrati nelle abitudini di tre generazioni almeno. E senza apparire mai.
JOSEPH (Joe per la famiglia e chi lo conosceva) aveva da poco festeggiato il suo secolo di vita, una festa il 22 febbraio. Anziano, sicuramente. Non vecchio. Capace come pochi di scommettere sull'innovazione tecnologica e comunicativa. Fu tra i pionieri dell'informatica, quando comprò fra i primi uno di quegli enormi computer tutto bobine e schede perforate che l'Ibm aveva proposto sul mercato. Da lì allo smartphone, che usava con la competenza di un millennial, il passo non è breve. Piuttosto una continua evoluzione, un senso di impegno e applicazione che è stato la sua fortuna. Quella di un gruppo che conta cinquemila dipendenti, presente in 139 Paesi con dodici stabilimenti in Europa, di cui due alle porte di Milano. Un colosso che ha strappato titoli a giornali e televisioni in casi rarissimi, più per le elargizioni in campo culturale, il teatro Franco Parenti e il Memoriale della Shoah. Perché Milano era la sua casa. E il suo testimone è passato al figlio Gabriele, oggi a capo della rete del Giardino dei Giusti. JOE amava la musica, lo sport, ma non perdeva mai tempo. «Tachless», definiva l'attitudine alla concretezza, in lingua yiddish, quell'abitudine a guardare in faccia la realtà, a risolvere i problemi senza troppe discussioni. Concetto ebraico che ha saputo tradurre in un lombardissimo piglio da cumenda, senza gli eccessi di esibizionismo di altri colleghi, ma capace di colpi da maestro. Acquisizioni, nel momento giusto e al prezzo giusto, ne ha messe a segno parecchie. Grandi marchi con tante potenzialità che via via rischiavano di sparire a causa di crisi aziendali, problemi di gestione. Lui arrivava, staccava l'assegno giusto, valorizzava e aggiungeva alla collezione. Negli ultimi anni lo ricordano meno severo, meno chiuso. Forse la consapevolezza di non aver più nulla da dimostrare. A sé, non agli altri. «Sono l'ultimo della mia generazione», aveva concluso raggiunti i cento anni.
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