Riprendiamo dal FATTO Quotidiano di oggi, 11/03/2019, a pag.10-11 il commento di Jean-Pierre Perrin dal titolo "I democratici Usa divisi sul giudizio su Israele", seguito dalla breve "Regime in Iran: il registro segreto della repressione". Due articoli equilibrati che stupiscono su una testata di solito schierata contro Israele come il Fatto.
I lettori di IC conoscono la figura di Louis Farrakhan, antisemita e odiatore di Israele che ha contribuito a diffondere l'ostilità contro lo Stato ebraico negli Stati Uniti e in particolare negli ambienti afroamericani.
Il fanatico Farrakhan ha più volte indicato negli ebrei i responsabili degli attentati dell'11 settembre, diffondendo così antisemitismo e complottismo, e ha spesso augurato la "morte a Israele", elogiato Hitler e l'Iran, definito gli Usa il "Grande Satana".
Louis Farrakhan, la prova che in America non serve essere bianchi per essere razzisti antisemiti (Tratto da Dry Bones, di Yaakov Kirschen)
Ecco gli articoli:
"I democratici Usa divisi sul giudizio su Israele"
IL PARTITO DEMOCRATICO puntava ad adottare, l'otto marzo, alla Camera dei rappresentanti dove ha la maggioranza, un progetto di legge che mira a facilitare l'esercizio del diritto di voto e limitare il finanziamento occulto delle campagne elettorali. Ha invece dovuto impiegare tutta la settimana per mascherare le divisioni interne provocate da un delle sue nuove elette, Ilhan Omar, accusata di aver fatto proposte a carattere antisemita. Ilhan Omar di origine somala, una delle due prime musulmane al Congresso degli Usa aveva accusato alcuni eletti di sostenere Israele solo nella speranza di raccogliere fondi per la loro campagna. Poi ha accusato dei rappresentanti ebrei di anteporre gli interessi di Israele a quelli degli Usa.
Jean-Pierre Perrin: "Regime in Iran: il registro segreto della repressione"
Jean-Pierre Perrin
Una manifestazione di protesta contro le esecuzioni pubbliche in Iran
Un registro confidenziale della giustizia iraniana, reso noto da"informatori" locali, ha rivelato il numero totale degli arresti effettuati in trent'anni nell'area di Teheran, rappresentando una testimonianza della repressione importante portata avanti soprattutto contro gli oppositori politici del regime. La Repubblica islamica d'Iran ha conosciuto quattro ondate di repressione. La prima all'inizio degli anni 80, dopo il trionfo della Rivo Tutto avvolto nell'ombra. Nelle carte rese note da Reporter senza Frontiere oltre 60 mila prigionieri politici luzione e in particolare dopo la caduta del governo islamico-liberale di Abolhassan Bani Sadr, da cui è scaturita una vasta campagna d'epurazione. La seconda nel 1988, quando 4 mila prigionieri, essenzialmente mujaheddin de popolo (una formazione armata islamico-leninista) e militanti di sinistra, furono giustiziati a luglio, agosto e settembre nelle prigioni, provocando un scisma all'interno del regime: l'ayatollah Hossein-Ali Montazeri, erede designato di Khomeini, denunciò questa politica, ma il gesto gli fece perdere il titolo di "promessa dell'imam", come si diceva nella più bella lingua persiana. La terza fu negli anni 2009-2010, durante e dopo la "rivoluzione verde", la grande sollevazione popolare che seguì la rielezione, segnata dalle frodi di massa, di Mahmud Ahmadinejad. L'ultima ondata di repressioni si è verificata al momento dei moti dell'inverno 2017-2018 che coinvolsero più di un centinaio di città: quattro manifestanti uccisi e circa 7 mila arresti, secondo il bilancio di Amnesty International. A di là di questi episodi spettacolari, la repressione in Iran resta poco visibile. E questo per una moltitudine di ragioni: la volontà del regime di occultarla, l'assenza flagrante di organizzazioni iraniane d'opposizione che siano un minimo credibili, una diaspora iraniana ampiamente egocentrica, il silenzio dei paesi occidentali per non infastidire i dirigenti del regime iraniano favorevoli all'apertura, Ali Akbar Hashemi Rafsanjani prima e Mohammad Khatami poi. Eppure, anche durante i mandati di questi due presidenti pragmatici o riformatori, la repressione, anche extragiudiziaria, era presente. Almeno quattro intellettuali furono assassinati sotto Khatami. Secondo il giornalista riformatore Akbar Ganji, Rafsanjani, di cui oggi in Iran si celebra più che volentieri la memoria per la sua volontà moderatrice, fu persino "l'eminenza grigia" di una serie di esecuzioni di intellettuali e oppositori, rivelazioni che costarono al giornalista un lungo periodo di detenzione. Poiché la repressione quotidiana in Iran è poco visibile, essa resta poco documentata. Oggi lo è un po' di più grazie agli informatori iraniani che sono riusciti a ottenere un registro segreto del ministero della Giustizia iraniano, in cui sono indicati in dettaglio tutti gli arresti, le detenzioni e le esecuzioni perla sola area di Teheran tra il 1979 e il 2009. In questo registro, che Reporter senza Frontiere (Rsf) ha potuto consultare, sono registrate circa 1,7 milioni di procedure. Per ogni persona è indicata la matricola e si precisano il nome, il luogo e la data di nascita, il sesso, la nazionalità, l'eventuale data dell'arresto e le autorità giudiziarie responsabili della procedura. Spesso sono indicati anche i capi d'accusa, la camera del tribunale, la data del giudizio e la condanna. Invece non è indicato lo statuto dell'imputato, né la sua funzione. Non si sa dunque se si tratta di un reato comune o di un delitto di opinione, come nel caso, per esempio, di un giornalista: cosa che permette al regime di affermare che non esistono detenuti politici o dissidenti religiosi in Iran. Le esecuzioni della minoranza "eretica" Se è dunque noto che i bahá'í, seguaci di una credenza religiosa molto minoritaria nata in Iran nel XIX secolo e considerata eretica, sono nel mirino del regime, il registro rivela per la prima volta la portata della persecuzione da loro subita. Almeno 5.760 bahá'í sono stati arrestati, imprigionati e in alcuni casi giustiziati, sempre nella regione di Teheran nello stesso periodo. "Per quarant'anni, il regime ha negato i fatti, affermando che se i bahá'í si trovavano in prigione non era a causa della loro religione ma delle loro attività `anti-nazionali' o per `propaganda'. Ma nel registro si vede chiaramente che sono stati arrestati per il solo fatto che sono bahá'í. Poi il tribunale inventa delle accuse per nascondere la verità e così, nelle riunioni internazionali, la Repubblica islamica può annunciare che nessuno in Iran è in prigione per ragioni religiose", insiste Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace nel 2003 e premio Sakharov nel 2012, che ha lei stessa difeso, in quanto avvocato, sette fedeli di questa confessione ed è presidente del Comitato per l'osservazione e l'utilizzazione dei dati sulla giustizia iraniani, creato di recente su iniziativa di Rsf. Membro di questo comitato, Monireh Baradam, ex prigioniera politica negli anni 80 e autrice di diversi volumi sulla giustizia iraniana, ha trovato il suo nome nel registro. "Invece il regime aveva sempre negato la mia testimonianza. È un documento molto importante - ha spiegato -. Vi figurano molte persone che sono state imprigionate ma i cui nomi finora non comparivano da nessuna parte". Iraj Mesdaghi, anche lui ex prigioniero politico, è dello stesso parere: "È un registro completo. Vi ho trovato decine di nomi di persone che conoscevo personalmente". Sui fatti del 2009, il documento indica che 6.048 persone sono state arrestate per aver partecipato alle manifestazioni, un numero che era stato impossibile stabilire finora perché il regime ha sempre negato di aver fermato dei manifestanti. Sono presenti anche informazioni sui 61.940 prigionieri politici che contava la regione di Teheran tra il 1979 e il 2009, in particolare la loro età: di questi, 520 avevano tra i 15 e i 18 anni al momento dell'arresto. Riguardo ai giornalisti iraniani, sono stati registrati almeno 860 nomi di giornalisti arrestati, imprigionati o in alcuni casi giustiziati (figurano quattro nomi tra i decessi), sempre per la sola area di Teheran e lo stesso periodo. Di questi, 57 sono stati arrestati con accuse particolarmente gravi: "spionaggio", "collaborazione con lo straniero", "azione contro la sicurezza interna", "insulti contro la guida suprema" o "insulti contro il sacro e l'islam". Sulle 218 donne giornaliste arrestate, si può constatare che alcune di loro sono state vittime di un vero e proprio accanimento giudiziario. Come nel caso di Jila Banu Yaghoob, militante per i diritti delle donne molto nota e responsabile del sito Kanoon Zanan Iran (Centro delle donne iraniane). Questo accanimento è andato avanti anche dopo il 2009. Nel 2010, la militante è stata di nuovo condannata a un annodi prigione e 30 anni di interdizione all'attività professionale da un tribunale di Teheran con l'accusa di "propaganda" contro il sistema e "insulti al presidente". Nel registro figura anche il nome di Zahra Kazemi, una giornalista iraniana-canadese, arrestata il 23 giugno 2003 mentre fotografava dei detenuti davanti alla prigione di Evin, picchiata durante il fermo e morta per le ferite riportate, il 10 luglio. Reso pubblico alcuni giorni dopo, il rapporto d'inchiesta non precisava le cause del decesso. Il registro non fornisce nessun'altra informazione su di lei, ma si scopre che la data del suo arresto è stata modificata di una settimana e che, stranamente, il nome riappare sei mesi dopo la sua morte nello stesso registro con un'altra matricola e l'accusa di "azione contro la sicurezza nazionale". Con questo registro, Shirin Ebadi e Reporter senza Frontiere hanno presentato un ricorso all'attuale alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet. Ma il documento, per quanto riveli la portata della repressione in Iran, rischia di presentare ancora troppe lacune per servire come base per l'apertura di una procedura speciale.
(traduzione di Luana De Micco)
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