Terrorismo islamico: bisogna impedire ai foreign fighters di rientrare in Italia Analisi di Lorenzo Vidino, Fausto Biloslavo
Testata:La Stampa - Il Giornale Autore: Lorenzo Vidino - Fausto Biloslavo Titolo: «Ai foreign fighter partiti dall’Italia bisogna vietare il rientro nel Paese - Il jihadista pentito (per finta). Adesso vuole tornare in Italia»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 11/03/2019, a pag. 10, con il titolo "Ai foreign fighter partiti dall’Italia bisogna vietare il rientro nel Paese", l'analisi di Lorenzo Vidino; dal GIORNALE, con il titolo "Il jihadista pentito (per finta). Adesso vuole tornare in Italia", il commento di Fausto Biloslavo.
Ecco gli articoli:
LA STAMPA - Lorenzo Vidino: "Ai foreign fighter partiti dall’Italia bisogna vietare il rientro nel Paese"
Lorenzo Vidino
«Voglio ritornare in Italia dalla mia famiglia e i miei amici e che loro mi accettino e aiutino a vivere una nuova vita. Voglio uscire da questo film, sono stanco». Sono queste le parole rilasciate da Moncef al Mkhayar alla Reuters mentre è detenuto dalle Forze Siriane Democratiche, la milizia supportata da Washington che sta combattendo gli ultimi rimasugli del fu Califfato. Mkhayar è infatti uno dei circa 130 foreign fighter che negli anni passati aveva lasciato il nostro Paese per unirsi allo Stato Islamico. Il suo caso è stato spesso visto come emblematico delle dinamiche di radicalizzazione nel nostro Paese: arrivato in Italia a 14 anni, Mkhayar era passato di comunità in casa famiglia a causa del carattere difficile e delle ripetute azioni violente e criminali. Fu proprio in carcere, dove era stato detenuto per droga, che pare fosse iniziato il suo percorso di radicalizzazione, per poi continuare su internet, due dinamiche classiche. Nel gennaio 2015, appena diciottenne era poi partito per la Siria insieme ad un amico conosciuto in comunità, Tarik Aboulala, che morì sul campo di battaglia poco dopo.
Il dilemma etico Oggi Mkhayar, crollato il Califfato che con tanto entusiasmo aveva raggiunto e per il quale aveva cercato di reclutare altri amici in Italia, arrivando a minacciarli di morte dalla Siria via social, vuole tornare in Italia. È una dinamica che negli ultimi mesi si è vista in altri Paesi europei, dove i numeri dei foreign fighter sono ben più alti che da noi. Particolarmente eclatante è stato in Inghilterra il caso di Shamina Begun, partita quindicenne da Londra per unirsi al Califfato e ora detenuta in Siria. Intervistata, la Begun, dimostrando un solo parziale pentimento e senza condannare l’Isis, ha comunque invocato il proprio diritto a tornare nel Regno Unito. Londra ha reagito revocandole la cittadinanza inglese e rendendola, in sostanza, apolide, cosa che ha provocato non poche polemiche. È questo il dilemma che sta animando il dibattito in molti Paesi europei: cosa fare dei soggetti, spesso cittadini nati e cresciuti nel Paese, che hanno combattuto con lo Stato Islamico e adesso, caduto il Califfato e detenuti, reclamano il diritto di tornare in patria? Vanno tutelati da angherie e processi sommari ai quali varie forze governative e non in Siria e Iraq li sottoporranno, come uno Stato occidentale farebbe normalmente con i propri cittadini all’estero? Oppure sono soggetti, che volontariamente si sono uniti a uno dei gruppi più violenti e barbarici della storia contemporanea e che, se rimpatriati, potrebbero evitare il carcere o scontare solo qualche anno per poi diventare delle vere e proprie mine vaganti pronte a colpire nei nostri Paesi? Vanno privilegiati i loro diritti individuali o quelli collettivi di sicurezza? Sono queste domande alle quali è difficile rispondere e ogni Paese occidentale le sta affrontando il maniera diversa. La volontà di agire eticamente, rimpatriando soggetti che, al di là delle atrocità che hanno commesso, sono comunque cittadini, cozza con la dura realtà che vede delle oggettive problematicità ad arrestare e condannare molti dei foreign fighter di ritorno a causa delle difficoltà a trovare prove contro di loro da poter portare in tribunale: un conto è sapere a livello di intelligence che un soggetto era in Siria a combattere, altro è poterlo provare con evidenze che passino il vaglio procedurale di un tribunale. Si arriva così a dinamiche altamente preoccupanti come quella inglese, dove solo una piccola percentuale dei combattenti ritornati sono stati arrestati, mentre la maggioranza è libera e assorbe le risorse dell’antiterrorismo inglese, che può solo monitorarli. Fortunatamente le dinamiche italiane sono diverse. I foreign fighter ritornati sono poco più di una dozzina, e il sistema giuridico italiano dispone di strumenti adeguati. Mkhayar, nonostante quanto riportato dalla Reuters, non è un cittadino italiano e quindi non sussiste un vero e proprio diritto al ritorno da noi, il problema si pone solo per quell’esiguo numero di soggetti con passaporto italiano che, se tornassero, verrebbero arrestati (è quanto successo l’anno scorso con Lara Bombonati, la ragazza di Tortona che, assieme al marito siciliano poi deceduto, si era recata in Siria).
Il prezzo delle scelte Oltre a non averne diritto giuridicamente, Mkhayar ha perso ogni diritto al ritorno in Italia anche dal punto di vista morale, vista la turpità delle sue azioni non solo una volta giunto in Siria ma ancor prima quando viveva in Italia. Se ci si unisce a una setta fanatica che ha sterminato intere popolazioni, schiavizzato migliaia di donne e compiuto attentati in tutto il mondo non si può certo dire di essere «stanco» e di «voler uscire da questo film» al primo giornalista, una volta arrestati, e pensare di farla franca. Come ogni persona, deve scontare il dovuto per le sue azioni, e il primo prezzo da pagare è l’impossibilità di tornare in Italia. Le sue dichiarazioni sono solo lacrime di coccodrillo che non inteneriscono.
IL GIORNALE - Fausto Biloslavo: "Il jihadista pentito (per finta). Adesso vuole tornare in Italia"
Fausto Biloslavo
Si dichiara pentito, si spaccia per italiano doc e vuole tornare ovviamente da noi, anche se sul collo ha una condanna di 8 anni per terrorismo internazionale. Monsef El Mkhayar è l'ultimo seguace dello Stato islamico partito dall'Italia e spuntato dall'assedio di Baghuz, l'enclave del Califfato in Siria che resisterà ancora per poco. Nelle ultime ore è scattato l'assalto finale agli irriducibili dell'Isis, ancora asserragliati in un chilometro quadrato. I curdi hanno catturato El Mkhayar due mesi fa, dopo che il marocchino vissuto per sei anni fra Milano e il Piemonte era stato ferito a una gamba. «Vorrei tornare in Italia dalla famiglia e dagli amici per farmi accettare e ricominciare a vivere una nuova vita», ha detto il terrorista di 22 anni all'agenzia di stampa Reuter in uno dei centri di detenzione dei curdi nella Siria nord orientale. Il furbetto sostiene di essere cittadino italiano, ma non è vero. Marocchino nato a Casablanca è arrivato da noi clandestinamente nel 2009 con i barconi. El Mkhayar si spaccia per connazionale, per evitare di venire ripreso dal Marocco, dove non lo tratterebbero con i guanti. Il conclamato pentimento è un paravento per cercare una via di uscita: «Voglio solo andarmene da questo film. Sono stanco». E preoccupato per la moglie, curda di Kobane, che gli ha già dato una figlia e sta per partorire un secondo bambino in un campo di detenzione delle donne dell'Isis. El Mkhayar ha rivelato che lo Stato islamico pianificava da tempo una nuova fase della lotta in nome di Allah, che prevede la creazione di cellule in sonno in Siria e Iraq «per vendicarsi» della cocente sconfitta. Secondo il terrorista partito dall'Italia a 18 anni, negli ultimi mesi le bandiere nere erano nel caos. Comandanti che fuggivano con la cassa e si ammazzavano fra loro ordinando alla truppa di combattere fino alla morte. Per accreditare il pentimento e giustificare l'errore El Mkhayar ha dichiarato nell'intervista: «Onestamente sono arrivato qui troppo in fretta e ho trovato tutta un'altra storia». Difficile credergli ricostruendo la sua radicalizzazione e i quattro anni passati nello Stato islamico. Il marocchino è arrivato clandestinamente in Italia nel 2009 e come ammette con la Reuter si interessava più alla musica rap che al Corano. E allo spaccio di droga che nel 2013 lo ha portato in cella a San Vittore per un anno. Dietro le sbarre si è radicalizzato, come testimoniano gli operatori della comunità Kayros che lo ospitavano a Vimodrone in provincia di Milano. Si rifiutava di stringere la mano alle donne e rimaneva incollato al computer con i video della guerra santa. Nel gennaio 2015 è partito per la Siria con l'amico Tarik Aboulala, che morirà in combattimento. Dal fronte non solo cercava proseliti in Italia per farli venire in Siria, ma i due minacciavano di tagliare la testa ai cristiani. Monsef in un messaggio vocale spiegava: «Vedrai qua cosa faremo ai miscredenti». Su Facebook postava le sue foto in armi e con la tuta nera dei miliziani del Califfo. Il 13 aprile 2017 la Corte di Assise di Milano lo ha condannato a otto anni di carcere, ma per lo Stato islamico la situazione peggiorava. Così è spuntata la storia del pentimento avallata dai familiari, che vogliono vederlo tornare a casa. Facile dopo aver fatto parte per anni delle bande di tagliagole dell'Isis in prima linea. La Digos aveva intercettato il marocchino partito da Milano, che ai tempi del Califfato invincibile giurava: «Se tornerò in Italia sarà per farmi esplodere».
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