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Evacuazione Ex agente dei servizi segreti israeliani, con una profonda cultura storica e politica, Raphael Jerusalmy è uno scrittore israeliano oltre che mercante di libri antichi nella città di Tel Aviv dove vive. Se la musica è il fil rouge che unisce le vicende del protagonista nel suo primo romanzo “Salvare Mozart” (e/o, 2013), ambientato in Austria durante la Seconda Guerra mondiale e vincitore del Prix Emmanuel-Roblès opera prima, sono i libri come mezzo di aggregazione e di potere ad essere al centro della seconda prova narrativa di Jerusalmy, “I cacciatori di Libri” (e/o, 2014), un romanzo storico a metà strada fra thriller e spy story che racconta di una misteriosa cospirazione nata per contrastare l’oscurantismo della Chiesa e difendere la cultura e la libertà di pensiero dalla censura dell’Inquisizione. Con l’ultimo romanzo intitolato “Evacuazione”, in libreria in questi giorni per La nave di Teseo, lo scrittore israeliano si allontana dalla storia medievale o da quella più recente della Seconda Guerra mondiale per catapultarci in una città futuribile, Tel Aviv, ormai deserta, perché gli abitanti con la guerra alle porte sono stati evacuati per ordine dell’esercito e caricati sugli autobus. Non tutti però hanno seguito le indicazioni di abbandonare la città e ora si aggirano come fantasmi in una Tel Aviv spettrale, inquietante per la disperata desolazione che suggeriscono quei palazzi vuoti, quelle strade deserte, quei negozi abbandonati dalla caotica vita di ogni giorno. Il suono delle sirene anticipa l’arrivo di un missile che squarcia sibilando il silenzio rarefatto della città: i bombardamenti colpiscono dal cielo senza tregua abbattendosi con fragore su alberghi e case deserti. In questo scenario cupo fra i pochi rimasti a Tel Aviv si muovono come naufraghi Saba che in ebraico significa nonno, suo nipote Naor, brillante allievo della facoltà di cinematografia all’università di Tel Aviv e la sua ragazza Yael, un’artista che ama dipingere. Dopo aver preparato gli zaini, chiuso l’acqua e la corrente come richiesto i giovani insieme al nonno salgono su uno degli autobus predisposti per l’evacuazione quando all’improvviso Saba scappa e decide che non vale la pena partire. A nulla valgono i ripetuti tentativi di Naor per convincerlo a raggiungere il kibbutz, oasi di serenità, dove vive la figlia: un’occasione preziosa per riconciliarsi con lei. Mentre osservano il pullman partire con le loro borse, Yael propone di raggiungere la casa di Yoni, compagno di università di Naor. Da qui prende avvio un racconto in bilico fra realismo e immaginazione in cui l’incubo della guerra pervade e angoscia l’anima dei protagonisti. Nel solco di questa trama piuttosto scarna l’autore innesta una narrazione a tratti surreale che accompagna il lettore in un percorso visionario e suggestivo attraverso vicoli, strade, angoli di una città molto diversa da quella che conosciamo, colorata, piena di luci e di animazione in qualunque momento del giorno e della notte. E’ una Tel Aviv che disorienta quella che immagina Jerusalmy, all’opposto di quella reale in cui il suono della musica, l’animazione dei locali pieni di giovani, il rumore del traffico lascia il posto al sibilo dei missili e al frastuono dei bombardamenti. In questo viaggio attraverso la città deserta, prima per raggiungere la casa di Yoni e poi per tornare verso le proprie case, dopo che a Ginevra si sono avviati i negoziati per giungere a una tregua dei combattimenti, i protagonisti riflettono sulla guerra, sulla forza dei legami familiari, sul modo migliore per procurarsi cibo e vestiario in condizioni di isolamento, oltre che sul valore di condividere un’esperienza che si rivelerà capace di unirli al di là delle differenze generazionali dentro alla paradossale bellezza che resiste alla guerra. “Evacuazione” non ha la potenza narrativa del romanzo di Assaf Gavron, “Idromania” (Giuntina) che raccontando l’ossessione di un futuro ipertecnologico immagina uno scenario apocalittico per Israele, né risulta calato in un contesto storico ben definito come “Parti Umane” (e/o) di Orly Castel-Bloom, tuttavia con la sua ultima opera Jerusalmy - al di là di una trama troppo frammentata rispetto al contesto generale - analizza con rara sensibilità gli esiti nefasti della guerra sulle persone e ci restituisce un romanzo che è un’isola di poesia nel tessuto di un presente difficile da capire, “uno struggente inno alla voglia di vivere in un tempo di pace”.
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